Émile Littré

[NOTA INTRODUTTIVA. - Maximilien-Paul-Émile Littré nacque e visse a Parigi (1 febbraio 1801- † 2 giugno 1881). I suoi genitori, liberi pensatori, non cercarono mai di inculcargli alcunché né di condizionare in qualche modo la sua mente, bensì si preoccuparono solo che apprendesse quanto desiderava in tutta libertà; possedevano una discreta biblioteca ed il piccolo Émile non tardò a manifestare la sua grande sete di sapere e le sue non comuni doti. Terminati gli studi secondari, già parlava e scriveva in inglese, tedesco, italiano, latino e greco. Quindi, optò per la medicina. Completato l'intero cursus degli studi, da esterno e da interno, rinunciò alla tesi, per soccorrere la madre che la morte del padre aveva lasciato senza risorse. Forse la rinuncia al titolo potrebbe essere stata favorita anche dal timore che la professione di medico a tempo pieno lo avrebbe costretto a trascurare gli studi umanistici. Comunque, fu un grande medico, anche se non fu dottore. Peraltro, non abbandonò mai gli studi di medicina. Il titolo di laurea, del resto, non avrebbe aggiunto nulla alle sue conoscenze, se non nella mente di quei bigotti ignoranti, che amano esibire i loto titoli per dissimulare la loro imbarazzante inadeguatezza.
Come tutti i grandi studiosi, si preoccupò innanzitutto di conoscere la propria lingua: i risultati degli studi in ambito linguistico sono splendidamente testimoniati dal suo grande Dictionnaire de la langue française, che fu completato nel 1872 per i tipi di Louis Hachette, condiscepolo di Littré. Quanto alla medicina, dovendo preparare la decima edizione del Dictionnaire de médecine di Joseph Capuron (1806, successivamente ampliato da Pierre-Hubert Nysten), l'editore Baillière chiese l'apporto di Littré, il quale, con l'aiuto di un collaboratore, Charles Robin, rifuse completamente l'opera (1855), lasciandovi la sua originale impronta; di questo dizionario Littré curò anche le edizioni successive, fino alla quattordicesima.
Molti anni prima, il medesimo editore Baillière aveva chiesto al trentenne Littré di preparare una traduzione completa di Ippocrate. Il primo volume di questa splendida edizione che non fu solo una semplice traduzione, è del 1839; l'ultimo, il decimo, è del 1863. In quest'opera Littré squaderna la sua rara competenza di linguista, medico e filologo. Ancora oggi insostituibile, è stata presa come testo base per la compilazione dell'Index Hippocraticus (Göttingen 1989).
Quanto al pensiero filosofico di Littré, basterà dire che era un positivista, che si contentava di esprimere chiaramente il suo pensiero, senza imposizioni, senza crociate, senza dogmatismi, senza animosità, senza tornaconti.
Insomma, Émile Littré fu un grand'uomo, di cui la Francia può ben essere fiera.

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Nel capitolo che qui presentiamo, Littré delinea in modo preciso e chiaro, come nessun altro, il pensiero di Ippocrate. A giudicare da quel che le varie enciclopedie e letterature scrivono di Ippocrate, confidiamo di aver fatto cosa utile.
Se Littré scrivesse oggi, sarebbe molto meno cauto nell'indicare le differenze tra la medicina ippocratica e quella moderna, poiché non è solo una questione di tempi diversi, ma di concezioni antipodiche. Ad esempio, se Ippocrate ritornasse dal passato, resterebbe esterrefatto dall'incapacità dei medici moderni di capire dove sta il problema, a dispetto di tutti i costosissimi esami possibili, perché basterebbe osservare il malato: non serve altro. Ma i nostri tempi hanno fatto convergere ogni umana preoccupazione nel denaro e nel potere che esso procura: tutto il resto non interessa più nessuno, o quasi…]




BREVE ESPOSIZIONE DELLA DOTTRINA MEDICA DI IPPOCRATE[*]
(Œuvres Complètes d'Hippocrate, traduction nouvelle avec le text grec en regard, collationné sur les manuscrits et toutes les éditions; accompagné d'une Introduction, de commentaires medicaux, de variantes et de notes philologiques; Suivie d'une table générale des matières. Par É. Littré. Tome premier, Paris [J.B. Baillière] 1839, pp. 440÷464)


Se, prima d'aver indagato per riconoscere quel che nel Corpus Hippocraticum appartenesse al solo Ippocrate, avessi cercato di esporre la sua dottrina medica, sarebbe stato arduo per me redigere un resoconto chiaro di quest'antica dottrina, e il lettore non sarebbe riuscito a seguire il filo del mio discorso, che si sarebbe rivelato contraddittorio e incoerente: vi avrebbe trovato, qui, riferimenti all'ipotesi dei quattro umori, là a quella del caldo e del freddo elementari, altrove a quella del pneuma, senza poter trovare, fra queste differenti concezioni della più antica medicina greca, un legame che di fatto non esiste, dacché trattasi di concezioni spettanti a sistemi diversi.
Attraverso lo studio e il confronto di testimonianze che non hanno nulla a che vedere con un eventuale o probabile sistema d'Ippocrate, sono giunto a discernere nel Corpus Hippocraticum un certo numero di scritti che considero come suoi. Ora, per una coincidenza che ho più volte riscontrato e che alla fine conferma i risultati del mio lavoro, si dà il caso che questi scritti, designati come opera dello stesso Ippocrate sulla base di motivi estranei all'esame della dottrina, presentano un insieme ove regna un solo pensiero, ove tutto si lega ed ove non si rilevano divergenze, né incoerenze, né contraddizioni. Ed è così che le lunghe ricerche da me intraprese ritornano, per così dire, su se stesse formando un cerchio, e riguardo a questa concordanza d'argomenti, rigirando il senso d'una frase d'un autore ippocratico, posso dire: data una circonferenza, non vi si trova un inizio.[1]
Dunque, delineare i principi dell'antica medicina d'Ippocrate è possibile. Escluderò dall'oggetto di questa esposizione l'anatomia e la fisiologia, poiché a quel tempo queste due parti della scienza medica erano ancora troppo ignorate ed i medici avevano a questo riguardo solo idee vaghe, benché talvolta profonde, la cui valutazione mi porterebbe troppo lontano.
Che la medicina d'Ippocrate abbia concesso ampio spazio alla teoria; che si sia votata alla ricerca delle cause e di come spiegarle; che abbia meritato l'appellativo di dogmatica dato dall'antichità alla sua scuola e ai suoi immediati successori, non può essere messo in dubbio, quando si legge il seguente passo di Platone: «La medicina ricerca la natura dell'oggetto ch'essa tratta, la causa di ciò che fa, e sa rendere conto di ciascuna di queste cose».[2] Ora, con l'aiuto delle idee teoriche affidate agli scritti attribuiti dalla critica allo stesso Ippocrate, non è difficile riempire il programma indicato da Platone.
Nell'antica medicina un primo punto da considerare riguarda le cause delle malattie. Ippocrate riconosce due ordini principali di cause, cui attribuisce la genesi delle affezioni patologiche. Il primo ordine comprende gli influssi delle stagioni, delle temperature, delle acque, delle località; il secondo ordine è più individuale ed è legato sia all'alimentazione particolare a ciascun uomo, sia agli esercizi che fa. Questi due ordini di cause sono trattati soprattutto negli scritti De aëre aquis et locis e De prisca medicina.
Considerare i cambiamenti dell'atmosfera in rapporto con le stagioni e con i climi fu un'idea feconda che Ippocrate sviluppò con successo e che la scienza posteriore non ha ancora esaurito. Man mano che l'anno passa per le sue fasi successive di calore, freddo, umidità e secchezza, il corpo umano subisce modificazioni, da cui le malattie traggono i loro caratteri. È su questa base che si fonda la dottrina delle costituzioni patologiche in corrispondenza di determinate condizioni dell'atmosfera; dottrina che è stata più volte rinnovata e studiata con grande cura. Secondo Ippocrate, quando l'anno o la stagione presentava un carattere particolare ed era dominato da questa o quella temperatura, fra gli uomini sottoposti a quelle condizioni, si manifestava una serie di affezioni recanti tutte la medesima impronta. Vi è qui un'intuizione profonda che i moderni hanno raccolto e sulla quale ancora dibattono: è il genio delle costituzioni patologiche e delle epidemie.
La teoria sull'influenza dei climi, sviluppata con tanto acume da Ippocrate, e alla quale si è così sovente attinto, è il frutto di tutto ciò ch'egli pensava sulle stagioni e sulla temperatura degli anni. In effetti, un clima non è, per così dire, che una stagione permanente, e la sua impronta dev'essere tanto più profonda dacché esiste e si fa sentire incessantemente. Ippocrate non vi ha quasi posto limiti. La conformazione del corpo, la disposizione dello spirito, il coraggio, l'amore della libertà, tutto, secondo lui, dipende dalla legge dei climi; e, se i Greci sono coraggiosi e liberi, mentre gli Asiatici sono effeminati e schiavi, questa differenza è dovuta al clima, sotto il quale questi popoli abitano.
Le età erano ovviamente considerate come stagioni e, per lo stesso motivo, esposte ciascuna a malattie specifiche ch'erano raffrontate a quelle causate dai cambiamenti annuali dell'atmosfera. Detta assimilazione era tanto più facile in quanto poggiava su una delle principali teorie di Ippocrate. Secondo lui il corpo umano è penetrato da un calore ch'egli chiama innato, la cui quantità è al suo massimo durante l'infanzia e va costantemente esaurendosi man mano che la vita procede, fino alla vecchiezza, ove giunge al suo minimo. Tali cambiamenti continui del calore innato, che subisce le stesse fasi del sole durante l'anno, dovevano far considerare le età al pari delle stagioni, e far attribuire a ciascuna età un ordine di malattie analogo a quello che si attribuisce a ciascuna stagione.
La seconda parte dell'eziologia generale comprendeva l'azione esercitata dall'alimentazione e dall'esercizio fisico. Ogni sorta di disordine è addebitato ad una alimentazione mal regolata. La sovrabbondanza come la carenza di cibo generano entrambe malattie, ed è un'affermazione notevole quella in cui Ippocrate segnala il danno causato agli atleti da un eccesso di salute derivante da un eccesso di alimentazione e di forza. Gli esercizi, che sono considerati come destinati a consumare il troppo dovuto all'alimentazione, determinano, quando sono eccessivi o del tutto trascurati, accidenti inversi che nuocciono alla conservazione della salute.
Detta eziologia, presa nel suo insieme, è grande e bella: il corso dei tempi e il progresso della scienza ne hanno rispettato le basi. Essa costituisce il primo saggio – chiaro ed invero profondo – della medicina greca sulle cause delle malattie. Ancora ai nostri giorni l'eziologia è una delle più importanti e più difficili materie di studio. Fu naturale per i primi medici – e fra essi per Ippocrate – comprendere ed osservare in primo luogo la grande ed universale influenza degli agenti del mondo esterno: clima, stagioni, tipo di vita ed alimentazione; tutte queste influenze furono tratteggiate a grandi linee. Osservare le cose nel loro insieme è proprio dell'antica medicina, ne costituisce il carattere distintivo e ne determina la grandezza, quando l'insieme che ha colto, è vero. Osservare le cose nel dettaglio e risalire per questa via alle idee generali è proprio della medicina moderna. Oggi non sarebbe più possibile costruire un'eziologia così comprensiva come vuole la dottrina d'Ippocrate. Molte influenze che dai tempi del medico di Cos erano ignorate, sono state individuate; tutto ciò che riguarda il contagio, i virus, le infezioni, ha preso un posto importante nell'insegnamento; e poi, ciò che si credeva di sapere, si è constatato che lo si ignorava: la febbre tifoide, ad esempio, che è la grande febbre endemica, almeno in una parte dell'Europa, ha visto cadere tutta la sua eziologia grazie a lavori recenti. Gli agenti esterni e l'alimentazione non ne spiegano la causa, che è rientrata nel campo delle cose sconosciute.[a] D'altro canto, però, in nessun altro caso l'influenza dell'età si fa sentire meglio, dacché, per un singolare privilegio, la vecchiezza ne è esente.
A parte l'influsso del calore innato e delle età, influsso la cui ammissione è una prova che Ippocrate non era estraneo alle dottrine che paragonavano l'uomo al mondo, il microcosmo al macrocosmo, è chiaro che la sua eziologia è tutta nello studio delle cause esterne; del pari – e lo vedremo più oltre –, la sua patologia è tutta nell'azione degli umori nocivi. Ciò che Ippocrate conosceva meglio, erano gli effetti prodotti sul corpo dall'alimentazione, dal tipo di vita e dal luogo di residenza; ciò che conosceva meno, era il meccanismo delle funzioni. Di qui, la sua eziologia, che è tutta volta verso l'esterno. Egli ha affermato che, per comprendere la medicina nella sua vera generalità, occorre studiare l'azione di tutti gli alimenti, di ogni tipo di vita, di tutto ciò che circonda l'uomo: è certamente uno dei programmi più ambiziosi dell'eziologia, che siano stati tracciati, e una delle indicazioni più profonde che siano state date alla medicina. Questo programma, che lasciava fuori solo il movimento e lo sviluppo spontaneo della vita, si ridusse per Ippocrate all'eziologia che ho appena esposto. Bisogna, però, aggiungere che non è esaurito e che il completarlo è ancora uno dei compiti principali della scienza. Tornerò ancora su questo pensiero che Ippocrate ha lasciato in uno dei suoi libri più notevoli; occorre solo osservare che un piano di ricerche così condotte, aventi per oggetto l'essere vivente nei suoi rapporti con il mondo circostante, comprende essenzialmente l'igiene e la patologia; di conseguenza, nonostante le lacune, propone una base di studio solida ed immensa, e si capisce come la medicina della Grecia e di Ippocrate, animata da un pensiero così giusto e fecondo, abbia fatto una scelta tanto felice nell'osservare la natura, consegnando alla posterità, insieme con un tesoro d'esperienze, un metodo che ha esercitato in qualche modo un'influenza potente e salutare.
La medicina ha spesso cercato di scoprire il mezzo organico attraverso il quale la causa vera o presunta genera la malattia. In ciò Ippocrate non è sfuggito all'influsso delle dottrine che l'avevano preceduto e che dominavano ai suoi tempi. Già prima di lui Anassagora aveva attribuito le malattie alla bile; Ippocrate le attribuì alle qualità degli umori e alle ineguaglianze delle loro miscele. La patologia degli umori ha dovuto necessariamente precedere quella dei solidi; infatti, molto tempo prima di vedere l'epatizzazione dei polmoni nella polmonite o l'alterazione della membrana pleurica nelle pleuriti, ci si era accorti delle modificazioni che subivano nelle malattie l'urina, il sudore, l'espettorato e le scariche alvine. Tuttavia Ippocrate, nel trattato De prisca medicina, all'azione degli umori affianca quella della forma e della disposizione degli organi (σχήματα). Questo aspetto fu poco seguito, persino da lui, e la teoria umorale rimase sempre predominante.
Secondo Ippocrate, la salute è dovuta alla regolare mescolanza degli umori: è quello ch'egli chiama crasi; e la malattia procede dal disordine della crasi degli umori. A quest'opinione si riallaccia una dottrina che è uno dei cardini della medicina ippocratica: è la dottrina della cozione,[b] ed occorre illustrarla con qualche dettaglio. Essa dipende incontestabilmente da un'altra teoria, quella del calore innato; l'una è conseguenza dell'altra, ma entrambe si basano sull'osservazione di fenomeni fisici. Il calore innato si basa sul fatto che il corpo vivo possiede una temperatura che gli è propria; la cozione si basa su un'altra constatazione, cioè che gli umori, man mano che la malattia si avvia alla sua conclusione, si modificano, si appesantiscono e cambiano di colore, le quali alterazioni coincidono col miglioramento.
Di fatto, ecco che cos'è la cozione. All'inizio di un raffreddore l'umore che cola dal naso è sottile, liquido e acre; man mano che il male s'avvia verso la guarigione, quest'umore diviene giallo, viscoso, denso, e cessa d'irritare le parti con le quali è a contatto. In un'infiammazione della congiuntiva l'umore che l'occhio produce, all'inizio è caldo e acre, poi diviene denso e dolce. L'espettorato della polmonite da schiumoso, viscoso, sanguinolento che è all'inizio, diviene giallo e denso quando la malattia s'avvicina ad una soluzione favorevole. Ecco quello che gli antichi hanno osservato e che hanno chiamato cozione. Dunque, la cozione è il cambiamento che gli umori subiscono nel corso di una malattia, ed essa, togliendo loro la sottigliezza, la liquidità e l'acredine, dà loro più consistenza, una colorazione più scura ed alcuni caratteri che sono stati metaforicamente assimilati al cambiamento prodotto dalla cottura delle sostanze.
Generalizzando queste osservazioni, che in alcune malattie non presentano alcuna difficoltà, gli antichi hanno convenuto che la maggior parte delle malattie subiscono una cozione, vale a dire un'elaborazione degli umori che termina con l'espulsione. Avendo definito la cozione, è inutile spiegare che cosa sia la crudità degli umori, poiché nell'ambito di una tale teoria si capisce da sé. Del pari, l'urina giunge alla cozione allorché presenta un deposito. Fintanto che gli umori sono crudi e leggeri, fluttuano nel corpo ed il male è nella sua fase più intensa; niente può determinare l'espulsione di tali nocive sostanze. Ma, quando l'attività propria della natura li conduce alla maturazione, allora essi si fissano, e sono trascinati via o dalle evacuazioni spontanee o dalle evacuazioni artificiali. In questa teoria è sempre una sostanza che intralcia l'economia dell'organismo, ed è sempre eliminandola che si sconfigge la malattia; per riuscirvi, la natura impiega sempre lo stesso mezzo, cioè la cozione, il passaggio della materia cruda ad uno stato in cui non possa più nuocere e veicolando la sua evacuazione dove si effettui senza danno. Così, tutte le affezioni che non sono suscettibili di una tale alterazione, sono reputate incurabili, come ad esempio il cancro.
Tali sono il senso e il valore della dottrina di Ippocrate sulla cozione. Sono qui possibili alcune riflessioni sul cammino delle scienze ed altresì un raccostamento curioso con le dottrine che ancora prevalgono ai nostri giorni. Questa dottrina ippocratica ha un notevole punto di contatto con quella che le ricerche di anatomia patologica hanno recentemente suggerito a qualcuno. Molto diversa nelle conseguenze essa parte da un principio comune e cioè che non vi è malattia senza alterazione della materia. Secondo Ippocrate tale alterazione consiste in un umore che turba l'economia dell'organismo; secondo la scuola che ha voluto fondarsi unicamente sull'anatomia patologica, essa consiste in una significativa lesione degli organi. Quindi, dai suoi inizi fino ad un termine piuttosto distanziato nel tempo, la medicina poggia sullo stesso principio. L'idea di malattia senza materia, come l'hanno intesa alcune scuole, è estranea ad Ippocrate. Nell'Argomento del trattato De prisca medicina cercherò di spiegare quel che potremmo chiamare il vitalismo del medico di Cos. Egli lo ha concepito nella sua realtà, va detto senza indugio, sia con forza sia con profondità.
Ancora, non posso fare a meno di considerare la cozione sotto un altro aspetto, raccostandola in altro modo alla medicina moderna. Per molte malattie, acute e croniche, la cozione ippocratica corrisponde di fatto a quel che noi chiamiamo risoluzione. Prendete per esempio la polmonite: la medicina antica, osservando l'espettorato che da schiumoso e sanguinolento diviene denso e giallastro, vi vede operare la cozione che accompagna la guarigione; il medico moderno, auscultando il polmone malato, riconosce il progredire del miglioramento sia dal crepitare del rantolo che succede al soffio bronchiale, sia da una respirazione normale che succede al rantolo crepitante. In questo caso la cozione è il segnale esterno del travaglio interno al polmone: il medico antico seguiva i segnali esterni, mentre il medico moderno segue il travaglio interno. Non vi è nulla di più istruttivo dello studio delle diverse soluzioni ad uno stesso problema date dalle scienze in tempi diversi. La cozione dell'espettorato e la risoluzione dell'epa­tiz­za­zio­ne sono due risposte – separate da più di ventidue secoli[c] – alla seguente domanda: da che cosa si riconosce che la polmonite è in fase di guarigione?
Sulla cozione, considerata in sé stessa, si possono fare tre osservazioni principali: – in primo luogo, essa poggia su un dato certamente troppo generalizzato, cioè che ogni malattia è causata da un umore dannoso; – in secondo luogo, laddove i medici antichi l'hanno osservata, vale a dire laddove un umore, colando, subisce diverse alterazioni in consistenza e colore, essa non è che un fatto concomitante alla risoluzione che opera nell'organismo o in una parte di esso; – in terzo luogo, il sistema della cozione è stato per assimilazione esteso a più malattie ove questo processo sfuggiva agli occhi dell'osservatore, per esempio nelle febbri continue. Ma va qui aggiunto, nei termini più generali possibili, che sulla questione non grava alcuna sentenza; e, per giunta, nella maggioranza delle affezioni, per le quali si ritorna all'alterazione degli umori, e nelle affezioni causate da principi virulenti e deleteri, i fenomeni patologici presentano una certa evoluzione che autorizza la cozione ippocratica o, almeno, l'idea, che vi è contemplata, di un processo d'eliminazione.
L'espulsione degli umori ad opera della cozione comporta sforzi che nella medicina greca ricevettero un nome specifico, quello di crisi. Le vie d'uscita sono diverse: le più comuni sono quelle del sudore, dell'urina, delle escrezioni alvine, del vomito e dell'espetto­ra­zione.
Ippocrate segnala spesso un altro tipo di crisi che è il deposito (ἀπόστασις). La teoria del deposito è strettamente legata a quella delle altre crisi, di cui non è che un'estensione. Quando la materia morbosa non ha trovato un'uscita conveniente, la natura la trasporta e la fissa in un punto particolare. Il deposito, però, non va confuso con l'ascesso: a volte è un'infiammazione esterna come un'erisipela, altre volte è la tumefazione di un'articolazione, altre ancora la cancrena di una parte. Di qui la distinzione, di primo acchito oscura, ma reale, tra le malattie che sono un vero deposito e portano un miglioramento, e le malattie che non sono un deposito, se non in apparenza, e non giocano alcun ruolo nella risoluzione della malattia. Le funeste erisipele che si osservano in alcune febbri tifoidi e che, lungi dall'attenuarne gli effetti, le aggravano, forniscono un buon esempio di detta distinzione. Occorre, poi, menzionare una sentenza del Prognosticon, considerata dagli uni come incomprensibile e dagli altri come futile, la quale, di contro, non solo è conforme alla dottrina ippocratica ma, di nuovo, è fondata sui fatti. Secondo tale sentenza un malato corre minor pericolo quando una parte del corpo è del tutto nera rispetto a quando essa è livida. Sprengel si domanda (Hist. pragmat. de la Médecine, t. I, p. 339) perché dovrebbe essere così. Ecco perché: l'annerimento delle parti annuncia la cancrena, vale a dire la formazione di un deposito, sforzo propizio della natura; e, se la mortificazione è circoscritta, vi è possibilità di guarigione; la lividura delle parti, invece, non è un deposito e può essere considerata come prova dell'indebolimento generale del malato ed è quindi un segno di pessimo auspicio.[d]
La dottrina dei giorni critici è il complemento di quella delle crisi. Secondo i medici antichi le crisi non sopravvengono in momenti indeterminati della malattia, i cui tempi sono regolati; infatti, i fenomeni ch'essa presenta, sono soggetti a un ordine, per cui certi giorni, a seconda del malato, della malattia, della stagione, sono sottoposti a sforzi critici. Nel quadro di una tale dottrina Ippocrate ha segnalato i giorni che gli sono parsi meritevoli d'osservazione; ciò che li ritarda o li accelera; ciò che indica la loro regolarità o la loro irregolarità, e il pericolo dei giorni critici che non offrono segnali.
Dalle considerazioni generali sulle cause delle malattie, dalla teoria sugli umori, sulla loro cozione, sulle crisi e sui giorni critici, risultava un modo tutto diverso dal nostro di giudicare il malato e la malattia. È quel che al tempo di Ippocrate si chiamava prognosi. Questo è un punto molto importante, perché costituisce una delle differenza più essenziali che separano la medicina ippocratica dalla medicina moderna. Per la scuola di Cos la prognosi non è quel che noi intendiamo con semeiotica. La semeiotica, infatti, è quel capitolo del sapere medico, che ci insegna il valore dei segni, ma non ha un predominio assoluto sugli altri capitoli, anzi essa è persino subordinata alla diagnosi qualora questa sia precisa, e nell'in­segna­mento occupa una posizione decisamente minore rispetto alla diagnosi. La prognosi di Ippocrate, al contrario, domina tutta la scienza, ne è il punto culminante, detta le regole al medico praticante; non vi è nulla che essa non consideri e non contempli; occorre, dunque, ben comprenderne il senso e la portata, poiché essa è, per così dire, la chiave della medicina ippocratica.
Essa è connessa in modo evidente con le teorie sulla cozione, sulle crisi, sui giorni critici; non indagherò se sia nata da queste teorie, o se, al contrario, queste teorie ne siano la conseguenza. Se pronostico, cozione, crisi, giorni critici procedono naturalmente insieme, ciò che era regolato doveva potersi prevedere, o, viceversa, ciò che si prevedeva era regolato. Mi sembra più filosofico considerare la prognosi e la dottrina della cozione e delle crisi non come nate l'una dall'altra, bensì come le due facce d'una medesima concezione scientifica. Queste due idee presero forma insieme, furono elaborate simultaneamente, illustrate dai medesimi lavori, poggianti sulle medesime esperienze e, senza aver ricevuto una forma sistematica, costituiscono la dottrina di Ippocrate e la regola cui egli rapportò tutto.
Che cos'è dunque la prognosi di Ippocrate? Non si creda, appellandosi all'etimologia, ch'essa miri unicamente alla previsione di ciò che deve accadere: la prognosi (Ippocrate è formale a questo riguardo) istruisce sul passato, sul presente e sul futuro del malato.[e] Essa istruisce sul passato, perché offre i mezzi per supplire a ciò che il malato non sa o non può dire, fornendo indicazioni sugli accidenti ch'egli ha dovuto subire, le cause che hanno agito su di lui, e la natura dell'affezione per la quale egli chiede soccorso. Sul presente, perché insegna la differenza che esiste tra lo stato di salute e quello di malattia, mostrando dal grado che quest'affezione ha raggiunto, il pericolo che il paziente corre, le possibilità di salute che gli restano e l'intensità del male che lo affligge. Infine, essa istruisce sul futuro, perché illustra i segni che annunciano la crudità o la cozione degli umori, l'avvicinarsi delle crisi, i giorni nei quali esse devono manifestarsi, gli esiti ch'esse avranno, e le parti dove i depositi critici si formeranno. Ecco nella sua interezza la portata della prognosi ippocratica, ecco il campo che abbraccia, ecco l'insegna­men­to che dà.
Si è appena visto che: – siccome la salute è data dalla giusta mescolanza o crasi degli umori, la malattia è provocata dallo sregolamento di questa crasi; – nel corso della malattia così provocata, opera un travaglio, paragonato metaforicamente alla cozione, il quale, compiendosi, porta alla guarigione, oppure, non compiendosi, lascia che il male perduri o sopraggiunga la morte; – in seguito a detto travaglio sopravvengono crisi caratterizzate da evacuazioni o da depositi; – questi fenomeni sono regolati nel tempo, donde si hanno i giorni critici; infine, guidato da questa serie d'osservazioni e di ragionamenti, il medico giunge ad abbracciare la malattia in una dottrina generale che è la prognosi. Orbene, qual è l'idea finale di questa dottrina? È che la malattia, indipendentemente dall'organo che colpisce o dalla forma che assume, è qualcosa che ha un suo percorso, un suo sviluppo, un suo termine. In questo sistema ciò che le malattie hanno in comune è più importante di ciò che esse hanno di distintivo; e sono proprio queste parti comuni che occorre studiare e che costituiscono il fondamento della prognosi. In altre parole, la prognosi è, se posso esprimermi così, la diagnosi dello stato generale, diagnosi nella quale il medico considera solo in modo molto secondario l'organo malato, o, per dirla con Ippocrate, il nome della malattia. Nella prognosi ippocratica, quel che noi chiamiamo diagnosi e quel che chiamiamo prognosi, si trovano fusi e riuniti; e quest'unione deriva dal fatto che il medico di Cos, preoccupato soprattutto di rilevare lo stato generale del malato, diagnostica – è vero – una certa condizione in un determinato momento, ma prevede nello stesso tempo, secondo le regole della sua arte, un certo decorso del male e persino ne valuta nel passato alcune circostanze: è questa la definizione che Ippocrate ha dato della prognosi. Si noti che quanto abbiamo esposto implica l'ammissione di una dottrina profonda, cioè che in ogni malattia il travaglio patologico è uno e passa, dall'inizio alla fine, attraverso uno sviluppo in cui tutte le fasi sono collegate fra loro. Cosicché la scuola di Cos, signora dell'idea dell'unità, o, in altri termini, dello sviluppo della malattia, e poco informata sulle particolarità, vale a dire sulla sede, sulla condizione anatomica, sull'estensione di ogni affezione, si volse tutta verso la ricerca degli aspetti comuni delle malattie, ed è il risultato di questo studio che Ippocrate ha consegnato nel pregevole scritto intitolato Prognosticon.
Così per l'antica medicina la prognosi è la fonte di tutte le conoscenze vere; è la filosofia della scienza del suo tempo; senza di essa non v'è che empirismo e pratica cieca. Cancellate la prognosi così come la scuola di Cos l'ha concepita e stabilita, cancellatela, dico, in un'epoca in cui l'anatomia ha fatto così pochi progressi, in cui lo studio delle funzioni è ai primi passi, in cui l'anatomia patologica non esiste, in cui la diagnosi differenziale è privata dei suoi elementi più preziosi: ebbene, quale faro resterà alla medicina? Che cosa le impedirà di perdersi in un dedalo di fatti particolari senza connessione, e di languire nell'eterna infanzia dove s'arrena tutto ciò che, non essendo oggetto d'un lavoro scientifico e d'un metodo, finisce necessariamente nelle mani degli empiristi, senza più procedere se non a caso? La prognosi è la prima costruzione scientifica che conosciamo, della medicina. A questo titolo essa merita la nostra attenzione, e la merita anche perché non è affatto basata su speculazioni ed ipotesi, ma perché parte da osservazioni ed esperienze reali. Il mutare della qualità degli umori durante il decorso delle malattie, le indicazioni dei segni che annunciano il progredire del male o un esito favorevole, lo studio delle evacuazioni e dei periodi critici e non, tutto ciò costituisce un insieme che è stato degno oggetto di studio e di teoria per la scuola di Cos.
Il talento scientifico dei Greci si manifestò, qui come altrove, con grande sicurezza e grande superiorità. Da un lato, l'intuizione che non vi erano solo fatti singoli, disgiunti gli uni dagli altri, li salvava dall'empirismo, dall'altro, inquadrare quei fatti in un sistema generale, faceva della medicina una scienza. Senza entrare nell'esame dei caratteri propri delle singole malattie, senza tentare di riunirle in un quadro e di classificarle, senza neppure sognarvi, la scuola di Cos coglie un'idea feconda che riassume ogni cosa e, in un'astra­zione che non manca né di portata né di grandezza, essa dà al medico una dottrina che lo guida sia nelle ricerche scientifiche sia nella pratica dell'arte. Secondo questa scuola (ed è l'esperienza, non l'ipotesi, che fornisce questi dati) il corpo umano presenta, durante il corso delle malattie, una serie di fenomeni che, senza doverli necessariamente collegare a questa o quella affezione, hanno un significato proprio, presagiscono ciò che sta per accadere, indicano l'esito probabile della lotta, gli sforzi che la natura tenterà, le vie per le quali essa si scaricherà, e i soccorsi ai quali l'arte può e deve ricorrere. Essendo dunque la malattia considerata come qualcosa di generale e d'indeterminato, la conoscenza della singola malattia – conoscenza in effetti molto limitata a quel tempo – non è nemmeno così indispensabile. La prognosi studia l'espressione fedele con la quale l'economia dell'organismo tradisce il disturbo che prova; è quest'espressione che importa cogliere. Far prevalere l'osservazione di tutto l'organismo sull'osservazione di un organo, lo studio dei sintomi generali sullo studio dei sintomi locali, l'idea degli aspetti comuni delle malattie sull'idea delle loro particolarità, questa è la medicina della scuola di Cos e d'Ippocrate.
Ho già avuto occasione di notarlo in questa Introduzione, la scienza umana non procede diversamente dalla storia umana; le scoperte e i sistemi non nascono più spontaneamente e senza antecedenti del formarsi degli imperi e delle rivoluzioni sociali. La prognosi ippocratica, come l'ho appena descritta, è certamente un bel risultato di lavoro dell'antichità, ma non è nata all'improvviso nella testa di Ippocrate o, per meglio dire, nell'ambito della scuola di Cos; essa aveva i suoi elementi già pronti, e la filiazione è semplice e naturale. Si sa che cosa fossero i templi di Asclepiade: i medici-sacerdoti che vi prestavano servizio e vi ricevevano i malati, registravano le osservazioni che l'esito delle malattie suggeriva loro, formando così una raccolta di note che si ritrovano nei Coa praesagia e nel primo libro del Prorrheticon. Importava molto ai sacerdoti, era nel loro carattere, era nelle abitudini di ogni ordine sacerdotale in Grecia di provare a sollevare il velo dell'avvenire e, nei templi di Asclepiade, di predire gli eventi patologici di cui il corpo di ciascun malato sarebbe stato il teatro. Di qui deriva l'aspetto previsionale, di pronostico, per così dire, che l'antica medicina dei sacerdoti d'Asclepiade presenta. Ma la divinazione non si applica soltanto all'avvenire, ma anche a un presente e ad un passato che si ignora. Ecco perché la parola prognosi (προγινώσκειν) è stata impiegata per esprimere un tal lavorio dello spirito, un tal giudizio medico che aveva per scopo di valutare lo stato passato, presente e futuro del malato. Fin qui fu un mestiere; ma, quando la scuola di Cos, riunendo insieme questi tre periodi, vide in ogni malattia non più una successione di fenomeni bizzarri, disordinati e senza legge, ma una concatenazione dove ogni fatto aveva la sua ragione nel fatto precedente, quel mestiere divenne una scienza. Qui, mi sembra, sta il passaggio dall'empirismo dei templi alla dottrina della scuola, e forse è ad Ippocrate stesso che va attribuito questo progresso. Del resto, ne è traccia evidente la parola stessa di prognosi (προγινώσκειν), che è rimasta legata al principale lavoro di Ippocrate. È dunque dalla divinazione medica nei templi e dalle osservazioni sulle quali si fondava, che è nata la prognosi di Ippocrate, dottrina profonda, secondo la quale ogni malattia è ad un tempo una e comune, una per il suo sviluppo, comune per certi fenomeni che chiamerò qui, per abbreviare, stato generale, e che Galeno, spiegando Ippocrate, chiama diatesi. Si ignora ciò che fu la medicina degli Egizi e degli altri popoli dell'Oriente, e se essa sia mai uscita dal cerchio delle osservazioni particolari, dei fatti senza legame e delle osservazioni senza metodo filosofico. La scuola ippocratica rompe questo cerchio, ed in questo modo ha influito su tutto l'avvenire della medicina in Occidente.
La base sulla quale riposava lo studio dello stato generale così concepito, non aveva nulla d'arbitrario: era il confronto tra la salute e la malattia. Dopo aver studiato il meccanismo regolare del corpo vivo, che la ginnastica insegnava loro con tanta precisione, i medici della scuola di Cos mettevano a confronto i fenomeni che si producevano nelle diverse malattie; lo stato di salute era la misura secondo la quale essi ne valutavano l'importanza e ne calcolavano il danno. In tutto il Prognosticon Ippocrate non ha altra regola per definire l'espressione della faccia, i sudori, l'urina, le evacuazioni alvine, la respirazione, ecc. Invero, ogni studio patologico si basa sul confronto tra lo stato di salute e quello di malattia. Ma ogni studio di questo genere non era condotto così come lo faceva la scuola di Cos. Questa scuola concepisce tutto quel che sa delle funzioni nella loro regolarità come un insieme, e lo confronta in blocco con ciò che osserva nell'uomo malato; da tale confronto essa coglie un quadro piuttosto che rilevare una serie di sintomi; uno studio dell'uomo tutto intiero piuttosto che uno studio di un organo leso; una ricerca delle sofferenze e degli sforzi delle grandi funzioni piuttosto che una ricerca delle alterazioni nascoste in qualche viscere; un resoconto della condizione generale del paziente piuttosto che un resoconto della condizione particolare di un apparato, di una membrana o di un tessuto. Non voglio lodare la scuola di Cos per avere agito così, poiché a quel tempo non poteva agire diversamente, né biasimo i moderni per voler insistere sulla diagnosi locale, senza la quale non vi sarebbe alcuna precisione possibile. Ma ciò che segnalo come un tratto di genio nell'antica medicina degli Elleni è che essi ebbero una capacità di generalizzazione tanto grande da edificare, con i dati che avevano, un sistema che seppe comprendere questi dati, ne fu il legame logico e costituì una scienza.
Non sto attribuendo ad Ippocrate e ai suoi maestri intenzioni che non avevano, voglio solo squadernare con l'analisi ciò che è nascosto nella sintesi delle loro concezioni. In effetti, la teoria che espongo, fu sua a tal punto ch'egli la difese contro i medici cnidii, ai quali rimproverava di moltiplicare le specie delle malattie e di negligere lo stato generale; fu sua, poiché tutto il Prognosticon è l'esposizione di quel che le malattie acute hanno in comune, e lo conclude dicendo che non bisogna rimpiangere il nome delle malattie che non vi si ritrovano elencate, dal momento che quanto esposto si applica a tutte le affezioni che hanno il medesimo decorso;[f] fu sua, infine, poiché i casi particolari consegnati nello scritto De morbis popularibus sono redatti secondo questa stessa regola.
Ippocrate è il primo ad averci trasmesso casi particolari delle malattie: esempio notevole che non è stato abbastanza imitato nelle età successive. Questi casi hanno un tratto speciale, e sono stati vantati molto spesso senza capire lo spirito che ne ha dettato la redazione. Essi sono il prodotto diretto del sistema che aveva fatto un tutto della medicina antica, il risultato di questa prognosi che ho spiegato.[g] Se li si giudica secondo le opinioni antiche, tutto diventa chiaro, e non vi si trova altro che una rigorosa applicazione della prognosi, del sistema che costituiva il fondamento di questa medicina. Tutto ciò che riguarda i caratteri di una particolare malattia, i sintomi locali, le lesioni di un organo, vi è omesso, perché, dal punto di vista ippocratico, tutto ciò non ha che un'importanza secondaria. Ma il regime abituale, le alterazioni che hanno preceduto la malattia, le evacuazioni critiche e non critiche, i giorni in cui si sono verificate, lo stato della respirazione, del sudore, dell'urina, sono annotati con perfetta esattezza; cosicché, in realtà, nell'osservazione ippocratica la singola malattia scompare per far posto al quadro generale della sofferenza e degli sforzi delle grandi funzioni.
Sarebbe certamente curioso e utile cercare nella storia della scienza come le diverse dottrine mediche abbiano influito sul modo di redigere i rapporti medici. Ne abbiamo un esempio sorprendente sotto gli occhi. Il metodo numerico di P.-C. Louis[h] ha cambiato, per quanti se ne servono e, possiamo aggiungere, per quanti non se ne servono, il piano secondo il quale sono descritti i singoli fatti. Quest'influenza del sistema medico sulla descrizione non è meno evidente nel De morbis popularibus di Ippocrate. Qui egli evita di nominare le malattie, di esporne i sintomi caratteristici; si tiene scrupolosamente entro i limiti della prognosi; in una parola, egli esegue fedelmente ciò che dichiara in un altro dei suoi scritti, e quest'idea è per lui un punto talmente fondamentale che nel Prognosticon si giustifica per non aver nominato un maggior numero di malattie specifiche, assicurando che al suo piano basta averne raccolto i segni comuni. Quale che sia l'opinione che si ha sul metodo di P.-C. Louis, è certo ch'esso risponde al bisogno della medicina moderna di approfondire sempre più il dettaglio dell'osservazione. Possiamo dunque asserire che il modo d'esporre la storia di una malattia risponde allo spirito che anima oggi lo studio della medicina, così come le storie particolari che si leggono nei De morbis popularibus portano il sigillo della dottrina di Ippocrate. Questo semplice confronto basta a caratterizzare l'una e l'altra epoca. Così come il medico moderno cerca e spiega ciò che le malattie hanno di specifico e di distintivo, in modo da poter diagnosticare con precisione la singola affezione, del pari il medico antico si occupa di ciò che esse hanno in comune, in modo che la singola affezione lasci spazio allo studio dello stato generale.
Della terapeutica di Ippocrate abbiamo solo lo scritto De diaeta in morbis acutis. Anche qui è l'idea di cozione, di crisi, è la valutazione dello stato generale o, in altri termini, la prognosi ad insegnare quando e come si deve ricorrere al regime alimentare, agli esercizi, ai rimedi per trattare le malattie. Essa contiene la terapeutica generale, vale a dire la formula di tutte le indicazioni, affinché il medico curante non adoperi a caso, né senza un preciso scopo, i mezzi che ha a disposizione. Una terapeutica così fondata cerca dunque di rendersi conto del motivo che la fa agire, del risultato che vuole ottenere, del momento che occorre scegliere, della crisi che occorre o assecondare o imitare: essa risponde alla definizione che Platone diede della medicina del suo tempo e che ho riferito più sopra.
Dal punto di vista della prognosi lo studio della salute, della malattia e del trattamento formava un tutto molto semplice. Erasistrato riferisce (Gal. vol. V, p. 40, ed. Bas.) che un certo Petronas, di poco posteriore a Ippocrate, si mise in testa di trattare i febbricitanti con la somministrazione di vino e carni.[i] Sicuramente questo Petronas non faceva parte della scuola di Cos: la dottrina ippocratica non avrebbe mai permesso un'aberrazione tanto grave; essa aveva troppo studiato l'uomo sano, l'uomo malato e gli sforzi della natura nelle febbri, per supporre che un tale trattamento potesse mai cogliere risultati vantaggiosi, e che un tale esperimento dovesse mai essere tentato. La prognosi, così come l'aveva fondata e insegnata, la premuniva contro le pericolose deviazioni d'un cieco empirismo. Petronas s'era grossolanamente chiesto: forse il vino, le carni guariscono le febbri, chissa? Proviamo! Una tale condotta faceva violenza a tutte le regole della prognosi.
Occorre senz'altro perdonare agli ippocratisti la loro ammirazione per la grande scuola che ha dato una base alla scienza, e per il grand'uomo che ne fu l'interprete. Quest'unità che appare nella concezione della più antica medicina greca, ha qualcosa di singolarmente bello e notevole; tanto più ch'essa non s'è più ritrovata, o, almeno, che i sistemi che hanno avuto la pretesa di rimpiazzare l'ippocratismo, non hanno mai avuto tanta consistenza, né tanta durata, né, occorre dirlo, tanto valore intrinseco. Mentre, infatti, quei sistemi si sono basati su ipotesi, Ippocrate si attenne alla realtà. Anche qui, sono i termini propri di Ippocrate, che uso. Ciò che egli combatte in De prisca medicina, è l'ipotesi (ὑπόθεσις); ciò ch'egli raccomanda è la realtà, lo studio dei fatti (τὸ ἐόν).
Come si vede, dunque, il metodo antico di Ippocrate e il metodo moderno non differiscono nella loro essenza, poiché sono entrambi metodi sperimentali. Ippocrate, come noi, ha voluto che si osservasse la natura, e, come noi, si è servito dell'induzione per ampliare il campo delle sue osservazioni e trovare un legame tra i singoli fatti. Ma egli ammette che questo legame è lo studio dei segni comuni delle malattie, e su questo studio egli stabilisce, senza esitare, la sua patologia generale. Noi siamo arrivati al punto in cui i segni comuni che bastavano a Ippocrate, non bastano più per guidare il medico nel vasto campo dei fenomeni patologici. Se noi applicassimo alla lettera il programma ippocratico, se rilevassimo i segni comuni e null'altro che i segni comuni in tutte le malattie, otterremmo un risultato così ridotto, scenderemmo ad una generalità così lontana che non ne uscirebbe nessun frutto per la teoria e per la pratica. E dunque? È che noi affondiamo, ogni giorno di più, nei dettagli, nell'osservazione locale, nelle ricerche sempre più sottili e minuziose. Ippocrate, per la natura delle sue conoscenze, si attenne alla superficie del corpo malato. Il medico moderno è penetrato nell'interno; e questo penetrare, se posso così esprimermi, nell'intimità degli organi e dei tessuti, è stato il lavoro dei secoli che ci separano da Ippocrate.
Il medico di Cos espone nel suo Prognosticon le comunanze delle malattie, vale a dire il valore dello stato generale del malato; nel De morbis popularibus ripercorre ciò che ha osservato, vale a dire queste stesse comunanze; nello scritto De diaeta in morbis acutis valuta la terapeutica secondo la regola ch'egli ha posto nel Prognosticon e seguita nel De morbis popularibus. Il trattato De prisca medicina combatte le ipotesi, si richiama unicamente ai fatti osservati, e dichiara che il corpo vivo, per essere conosciuto, dev'essere studiato nei suoi rapporti con ciò che gli sta intorno. Ecco la dottrina di Ippocrate, esposta nei suoi stessi libri. Il suo metodo è sperimentale, la sua teoria medica riposa sull'idea della regolarità del decorso delle malattie e sulle loro comunanze; infine, ciò che chiamerò la sua filosofia o la sua metafisica, consiste nell'idea che si fa del corpo vivo, che, secondo lui, sussiste per i suoi rapporti e dev'essere studiato nei suoi rapporti con il resto delle cose. Questo pensiero del medico greco, completamente opposto a quello dei filosofi a lui contemporanei, i quali cercavano di conoscere il corpo vivo in sé, è essenzialmente connesso con l'igiene e la patologia. Esso fu senz'altro il frutto delle sue vaste conoscenze in queste due branche della medicina; ma, di rimando, gli fece comprendere l'impotenza e il vuoto dell'ipotesi, ond'egli poté proclamare nel suo De prisca medicina che per il progresso di questa scienza non v'era che una via e che questa via era quella del ragionamento fondato sull'esperienza.
Non ci si meraviglierà che, terminando questa breve esposizione della dottrina di Ippocrate, abbia ricordato gli scritti ch'essa ha soprattutto ispirato. Infatti questi scritti, appartenendo ad uno stesso pensiero, devono essere d'una stessa mano, e questa mano è quella di Ippocrate. La conferma, per questa via, di tutti i risultati del mio lavoro è talmente schiacciante che non ho voluto che il lettore ne rimanesse disinformato.

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[*] Le note numerate, ove peraltro abbiamo aggiornato le citazioni ed aggiunto la traduzione latina ai passi in greco, sono di Littré. Le note segnate dalle lettere dell'alfabeto sono nostre. Le opere di Ippocrate sono indicate con il titolo latino utilizzato per il Thesaurus Linguae Graecae.
[1] Cf. De loc. in hom. 1,1 (Joly): Κύκλου γραφέντος ἀρχὴ οὐκ εὑρέθη (in circulo nullum initium invenitur).
[2] Ἡ δ' ἰατρικὴ... τούτου οὗ θεραπεύει καὶ τὴν φύσιν ἔσκεπται καὶ τὴν αἰτίαν ὧν πράττει, καὶ λόγον ἔχει τούτων ἑκάστου δοῦναι (medicina vero… et naturam exquirit illius quod curat et causam eorum quae agit, et cur unumquodque fiat rationes affert) (Pl. Gorg. 501A).
[a] La scoperta delle numerose salmonelle responsabili di varie forme di gastroenteriti è di qualche decennio posteriore alla pubblicazione del presente capitolo; in particolare, la Salmonella typhi o bacillo di Eberth, causa della cosiddetta febbre tifoide, fu individuata nel 1880 dal batteriologo Karl Joseph Eberth, il quale pare sia stato preceduto nella scoperta dal patologo Edwin Klebs.
[b] Πέψις.
[c] Si tenga presente che Littré scrive questo capitolo nella prima metà dell'Ottocento.
[d] In effetti, scrive Ippocrate, μελαινόμενοι δὲ παντελῶς οἱ δάκτυλοι καὶ οἱ πόδες ἧσσον ὀλέθριοι τῶν πελιδνῶν εἰσιν· ἀλλὰ καὶ τἄλλα σημεῖα σκέπτεσθαι χρῆ (omino vero digiti et pedes nigrantes minus perniciosi quam sunt liventes: sed reliqua quoque signa observari oportet ) (Progn. 9 [Littré II, p. 132]); ed è lo stesso Ippocrate a precisare che, in presenza di indicazioni favorevoli, τὸ νόσημα ἐς ἀπόστασιν τραπῆναι ἐλπίς, ὥστε τὸν μὲν ἄνθρωπον περιγενέσθαι, τὰ δὲ μελανθέντα τοῦ σώματος ἀποπεσεῖν (morbum in sedimentum se conferre est in spe ita ut non solum homo aeger recreetur, sed etiam denigratae corporis partes decidere possint) (ibid. p. 134).
[e] Cf. Progn. 1 [Littré II, p. 110]): τά τε παρεόντα καὶ τὰ προγεγονότα καὶ τὰ μέλλοντα ἔσεσθαι (praesentia, praeterita et futura).
[f] Cf. Progn. 25 (Littré II, p. 190): ποθέειν δὲ χρῆ οὐδενὸς νουσήματος οὔνομα, ὅ τι μὴ τυγχάνῃ ἐνθάδε γεγραμμένον· πάντα γὰρ ὁκόσα ἐν τοῖσι χρόνοισι τοῖσι προειρημένοισι κρίνεται, γνώσῃ τοῖσιν αὐτέοισι σημείοισιν (quod quidem nomen morbi cuiusdam hic non commemoravimus, non est desiderandum: namque omnes qui praedictis temporibus iudicantur, eisdem signis agnosces).
[g] Negli Addenda et corrigenda al primo volume (cf. Oeuvres complètes d'Hippocrate, II [Paris] 1840, p. XLIX) Littré elenca aggiunte e rettifiche che gli sono state fornite sia da segnalazioni altrui sia dalle sue proprie riflessioni. A queste ultime va ascritta la soppressione, qui affatto condivisibile, del seguente periodo: «In effetti che vi si vede? Se li si giudica secondo il nostro metro, li si troverà molto inadeguati, poiché i segni che caratterizzano una malattia vi mancano; non vi si trova alcun dettaglio sulla serie dei sintomi e degli accidenti che il paziente ha attraversato: tutt'al più, accostando qualche indicazione sparsa qua e là e interpretando qualche sintomo annotato altrove, si può giungere a dare un nome moderno alla malattia trattata da Ippocrate. Ma».
[h] Cf. É. Littré, Dictionnaire de Médecine, Paris (Librairie J.-B. Baillière et Fils) 161886, p. 1083 s.v. NUMÉRIQUE.
[i] Secondo Galeno (cf.  Ἱπποκράτους περὶ διαίτης ὀξέων νοσημάτων βιβλίον καὶ Γαληνοῦ ὑπόμνημα [Kühn xv p. 436]) Erasistrato, dopo aver passato in rassegna i regimi alimentari più bizzarri, tra cui anche quello di Petronas (διελθὼν γὰρ... Πετρωνᾶν, τὸν κρέα τε καὶ οἶνον διδόντα [… Petronam, qui carnem et vinum dabat]), scrive: ἐπὶ πολλῶν μὲν οὖν πάνυ μεγάλαις πληγαῖς περιέπιπτον· εἰ δὲ πάντες κακῶς ἀπηλλάττοντο πυρέττοντες ἐν τῇ τοιαύτῃ ἀγωγῇ τῆς θεραπείας, πεπαυμένοι ἂν ἦσαν τοῦ θεραπεύειν οἱ ἰατρεύοντες οὕτως· ἀλλ' ὡς ἔοικεν οὐκ ἐφαρμόζει πᾶσι τοῖς πυρετοῖς ἡ αὐτὴ ἀγωγὴ τῆς θεραπείας (multi igitur gravissimis incommodis adficienbantur; si vero omnes febrim habentes huiusmodi curatione e nullo morbo evaderent, curationem illam adhibere medici desivissent. At vero, ut par est, non omnibus febrim habentibus eadem curationis ratio convenit).

Franco Luigi Viero]

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