Aristotele spiega l'aspetto verbale del presente e del perfetto

Prima di entrare in argomento, qualche considerazione introduttiva pare doverosa.

Questi nostri tempi vedono spuntare svariati Anticristi o, meglio, irrecuperabili malati di mente, i quali, sostenendo che l'anima non esiste, vorrebbero trasformare l'essere umano in transumano con l'aiuto della tecnologia, senza avvedersi che l'anima è proprio quella che stanno utilizzando per esternare i loro deliri. La parusia dell'anima è infatti nella lingua.

In matematica non esiste, per esempio, un 8 (otto) che sia “più 8” di un altro 8. Al contrario nella lingua è possibile definire una cosa come “perfetta” e, poco dopo, che un'altra cosa è “ancora più perfetta”. Quest'esempio ci viene suggerito dal ricordo di una conversazione, cui assistemmo decenni fa, durante la quale due contendenti cercavano di smontare le reciproche argomentazioni, facendo ricorso ad una (pseudo-)logica infantile. Ad un certo punto uno dei due utilizzò il comparativo “più perfetto”, offrendo così all'altro contendente la prova che le sue affermazioni erano contraddittorie: infatti – asseriva il secondo contendente –, se una cosa è “più perfetta” di un'altra, significa che l'altra cosa non era “perfetta”.
Siffatto giocherellare con le parole, non è possibile con i numeri, i quali, al livello più basso del loro utilizzo, ubbidiscono ad una logica matematica (quella cui ubbidiscono gli algoritmi), mentre la lingua, a qualunque livello, ubbidisce sempre e solo ad una logica simbolica. Infatti, non esiste un traduttore automatico in grado di tradurre senza errori da una lingua all'altra, e non esisterà mai. Perché? Perché i traduttori automatici non possiedono l'anima e non la possiederanno mai; la lingua, invece, ne consente la manifestazione.
Tale premessa non prelude certo ad una trattazione filosofica, ma si è resa necessaria per inquadrare quel che diremo sull'aspetto verbale ed, in particolare, sull'aspetto verbale del presente e del perfetto.
I grammatici antichi non avevano coniato un'espressione paragonabile a quella moderna di aspetto verbale, ma sapevano di che cosa si trattasse; il che è testimoniato dal termine ἀόριστος applicato ad un tempo dei verbi. Di contro, i grammatici moderni conoscono l'espressione aspetto verbale, ma ignorano che cosa esso sia; eppure ne scrivono!

Ebbene, si dà il caso che Aristotele formuli il suo concetto di πρᾶξις sulla base dell'aspetto verbale, che il presente ed il perfetto hanno nella sua lingua. Poco importa, in questa sede, stabilire se egli ne fosse consapevole o no; ciò che conta è che, per illustrare che cosa egli intenda per πρᾶξις, azione, utilizzi le forme verbali del presente e del perfetto, e lo fa in più occasioni. Ancorché i suoi obiettivi non siano linguistici, ma speculativi, nondimeno è costretto a ricorrere ai mezzi espressivi che la lingua greca del suo tempo offriva e dai quali il suo pensiero è condizionato.
Il luogo più esteso, in cui egli tratta l'argomento, si trova in Metafisica 9,6,1048b,18÷35.
Qui di seguito proponiamo il testo e la relativa traduzione di Giovanni Reale,[1] un'autorità in materia, senza tralasciare le sue note.

Ἐπεὶ δὲ τῶν πράξεων ὧν ἔστι πέρας οὐδεμία τέλος ἀλλὰ τῶν περὶ τὸ τέλος, οἷον τὸ ἰσχναίνειν ἢ ἰσχνασία [αὐτό], αὐτὰ δὲ ὅταν ἰσχναίνῃ οὕτως ἐστὶν ἐν κινήσει, μὴ ὑπάρχοντα ὧν ἕνεκα ἡ κίνησις, οὐκ ἔστι ταῦτα πρᾶξις ἢ οὐ τελεία γε (οὐ γὰρ τέλος)· ἀλλ' ἐκείνη <ᾗ> ἐνυπάρχει τὸ τέλος καὶ [ἡ] πρᾶξις. οἷον ὁρᾷ ἅμα <καὶ ἑώρακε,> καὶ φρονεῖ <καὶ πεφρόνηκε,> καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν, ἀλλ' οὐ μανθάνει καὶ μεμάθηκεν οὐδ' ὑγιάζεται καὶ ὑγίασται· εὖ ζῇ καὶ εὖ ἔζηκεν ἅμα, καὶ εὐδαιμονεῖ καὶ εὐδαιμόνηκεν. εἰ δὲ μή, ἔδει ἄν ποτε παύεσθαι ὥσπερ ὅταν ἰσχναίνῃ, νῦν δ' οὔ, ἀλλὰ ζῇ καὶ ἔζηκεν. τούτων δὴ <δεῖ > τὰς μὲν κινήσεις λέγειν, τὰς δ' ἐνεργείας. πᾶσα γὰρ κίνησις ἀτελής, ἰσχνασία μάθησις βάδισις οἰκοδόμησις· αὗται δὴ κινήσεις, καὶ ἀτελεῖς γε. οὐ γὰρ ἅμα βαδίζει καὶ βεβάδικεν, οὐδ' οἰκοδομεῖ καὶ ᾠκοδόμηκεν, οὐδὲ γίγνεται καὶ γέγονεν ἢ κινεῖται καὶ κεκίνηται, ἀλλ' ἕτερον, καὶ κινεῖ καὶ κεκίνηκεν· ἑώρακε δὲ καὶ ὁρᾷ ἅμα τὸ αὐτό, καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν. τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ἐνέργειαν λέγω, ἐκείνην δὲ κίνησιν. τὸ μὲν οὖν ἐνεργείᾳ τί τέ ἐστι καὶ ποῖον, ἐκ τούτων καὶ τῶν τοιούτων δῆλον ἡμῖν ἔστω.

Poiché delle azioni7 che hanno un termine nessuna è di per sé fine, ma tutte tendono al raggiungimento del fine, come ad esempio il dimagrire[2] che ha come fine il dimagrimento; e, poiché gli stessi corpi, quando dimagriscono, sono in movimento in questo modo, ossia non sono ciò in vista di cui ha luogo il movimento, ne consegue che queste non sono azioni, o almeno non sono azioni perfette, perché, appunto, non sono fini. Invece, il movimento nel quale è contenuto anche il fine è anche azione. Per esempio, nello stesso tempo uno vede e ha veduto, conosce e ha conosciuto, pensa e ha pensato, mentre non può imparare ed avere imparato, né guarire ed essere guarito. Uno che vive bene, ad un tempo ha anche ben vissuto, e uno che è felice, ad un tempo è stato anche felice. Se così non fosse, bisognerebbe che ci fosse un termine di arresto, così come avviene quando uno dimagrisce; nei casi in questione, invece, non c’è questo termine d’arresto: a un tempo uno vive e ha vissuto. Di questi processi i primi bisognerà denominarli movimenti, i secondi, invece, attività. Infatti, ogni movimento è imperfetto: così, ad esempio, il processo del dimagrire, dell’imparare, del camminare, del costruire. Questi processi sono movimenti e sono palesemente imperfetti: non è possibile, infatti, che uno cammini e abbia camminato nel medesimo tempo, né che, nel medesimo tempo, uno costruisca ed abbia costruito, che divenga e che sia divenuto, riceva movimento e l’abbia ricevuto: queste sono cose diverse. Invece, uno ha visto e vede nel medesimo tempo, e, anche, pensa ed ha pensato. Chiamiamo, pertanto, attività quest’ultimo tipo di processo e movimento l’altro.8 Che cosa sia l’essere in atto e quali le sue proprietà, dunque, deve risultare chiaro da queste e da altre simili considerazioni.»

Note.[3]
«7 (1048 b 18-35). Distinzione fra movimento e attività. — Questa parte finale del capitolo (ll. 18-35) non è data da certi manoscritti, non è tradotta da G. Di Moerbeke né da Bessarione, non è commentata da ps. Alex. (eccetto che in un codice, riportato da Hayduck a p. 581 in nota) né da Thom. Quasi tutti gli studiosi sono comunque d'accordo circa l'autenticità della dottrina ivi contenuta.
8 (1048 b 18-35). Distinzione fra movimento e attività. — Aris. distingue: (1) movimenti e azioni che hanno il fine fuori di sé, come ad esempio il dimagrire che ha per fine la magrezza, l'apprendere che ha per fine il sapere, il camminare che ha per fine il raggiungimento di un luogo, etc.; (2) movimenti e azioni che hanno il proprio fine in sé, come il vivere bene, l'essere felici. (1) Nel primo caso, essendo lo scopo fuori dall'azione, questa sta in rapporto a quello come mezzo a fine e, pertanto, non è azione perfetta o compiuta. (2) Nel secondo caso, invece, essendo l'azione stessa lo scopo, si ha una azione compiuta o perfetta. (1) Nel primo caso, dice Arist., si dovrà propriamente parlare di movimento e non di attività; (2) nel secondo invece, si dovrà parlare di attività, stante appunto l'intrinseca perfezione e la immanenza del fine (si capisce, in funzione di tale distinzione, come in Eth. Nicom., VII 14, 1154 b 27 Arist. possa parlare di ἐνέργεια ἀκινησίας, cioè di attività senza movimento, propria del Motore primo). Si vedranno, a questo proposito, le interessanti annotazioni di Tricot, Métaph., II, pp. 501 s., nota 1.»

I. Il Reale non sembra avvedersi che il testo è un vero pasticcio, e la sua traduzione, che – lo ammettiamo senza difficoltà – ci risulta pressoché incomprensibile, impone d'analizzare la sua fonte. Non avendo a nostra disposizione i manoscritti, non potremo rivedere criticamente il testo (nessun vero filologo, infatti, dovrebbe permettersi di mettere mano a un testo sulla base della collazione fatta da altri). Cercheremo comunque di passare al setaccio questo capitoletto così da permetterci d'essere nella condizione di affrontare l'oggetto di questa nostra nota: l'aspetto verbale del presente e del perfetto.
Innanzitutto varrà la pena citare quanto scrisse il Bonitz:[4] «Su quale sia l’oggetto dell’intera questione, non v’è dubbio: essa riguarda infatti la distinzione fra le nozioni di ἐνέργεια e κίνησις. Ἐνέργεια significa quell’azione che ad un tempo comprende in sé ciò per cui è iniziata ed a cui tende, e non cessa nel momento in cui lo ha raggiunto. [...] Κίνησις invece significa solo la via, per la quale ciò che è in potenza è portato all’ἐνέργεια e al completamento della sua essenza: la κίνησις non perdura ma finisce quando ciò cui tendeva è stato raggiunto». Possiamo ben dire che la spiegazione del Bonitz coglie nel segno; per di più, da ottimo grecista qual era, si avvede delle difficoltà che il capitoletto presenta: «L’errore dei copisti, in seguito al quale in alcuni manoscritti è stato omesso l’intero brano, sembra aver riguardato le singole parole: sono infatti talmente corrotte da non potersi comparare nessun altro luogo della Metafisica, e, se non ne mutiamo con una certa audacia qualcuna, non sembrano poter essere restituite, nel giusto ordine, ad una qualche somiglianza con la forma genuina». Noi possiamo fin d’ora aggiungere – e lo vedremo – che non sono corrotte solo le singole parole, bensì intere frasi.
È di tutta evidenza che siamo di fronte ad una miscela di due redazioni diverse,[5] una delle quali, probabilmente scritta a margine insieme con diverse correzioni, è disordinatamente confluita nel testo ad opera di un copista disorientato. Gli scribi successivi, nel cercare forse di mettere ordine, peggiorarono le cose, facendoci pervenire una redazione davvero intricata. I moderni traduttori filosofanti, nel voler dare coerenza ad un testo così storpiato, hanno ancor più oscurato il pensiero d'Aristotele, il quale, amando giocherellare con le parole come se fossero numeri, tende per vizio congenito a stordire il suo uditore/interlocutore/lettore, costringendolo ad ammettere d'aver compreso l'incomprensibile! Ne dà prova lo stesso Reale, il quale, volendo far apparire la sua traduzione sensata e coerente, infiocca il testo greco con fronzoli estranei ad esso.
Il primo periodo – ἐπεὶ δὲ... οὐ γὰρ τέλος – presenta una difficoltà quasi ad ogni parola. Il termine τέλος è tradotto dal Reale con fine, nel senso di scopo. Egli, infatti, non ha voluto tener conto del Bonitz laddove questi scrive che «la κίνησις non perdura ma finisce quando ciò cui tendeva è stato raggiunto». Quindi τέλος più che lo scopo è il resultamento, cioè il raggiungimento dello scopo, il suo compimento, il compimento della πρᾶξις.
La proposizione reggente non può che essere οὐκ ἔστι ταῦτα πρᾶξις. Scrive il filosofo: ἐπεὶ δὲ τῶν πράξεων ὧν ἔστι πέρας, οὐδεμία τέλος, poiché delle azioni che hanno un termine, cioè che ad un certo momento cessano, nessuna <raggiunge> un risultato; e prosegue: ἀλλὰ τῶν περὶ τὸ τέλος, οἷον τὸ ἰσχναίνειν[6] ἢ ἰσχνασία [αὐτό], ma di quelle[7] che <mirano> al risultato, ad esempio il dimagrire o dimagramento [stesso],… Soffermiamoci un attimo: ἀλλὰ sembra introdurre un inciso, col quale Aristotele, tra le azioni che hanno un termine e che, quindi, non raggiungono un risultato, vuol distinguere e quelle che non esprimono a quale risultato tendano e quelle che lo esprimono, come τὸ ἰσχναίνειν.[8] Prima di accennare all'espunzione di αὐτό, si frappone ἢ ἰσχνασία.
Rileggiamo la traduzione: «… (come ad esempio il dimagrire che ha come fine) il dimagrimento». Il Reale dà qui ad ἰσχνασία il significato di 'magrezza'.[9] Ma ἰσχνασία è un nomen actionis, che – come asserisce poco dopo lo stesso Aristotele – è, al pari di μάθησις βάδισις οἰκοδόμησις, una κίνησις ἀτελής, un movimento incompleto (= senza risultato).[10] In questa seconda ricorrenza il Reale traduce ἰσχνασία con «il processo del dimagrire», cioè l'esatto contrario di quel che egli stesso ha inteso poco prima con «dimagrimento». Lo Jaeger (col quale, sia detto per inciso, il Reale polemizza) ritiene ἡ ἰσχνασία una glossa;[11] chi non concorda, o accetta le correzioni del Bywater (v. nota 8) oppure lascia, come fa il Bonitz, il testo com'è nei manoscritti.[12] Il Reale, di contro, che pure accetta le correzioni del Bywater, traduce un suo testo...
Ed ora torniamo all'espunzione di αὐτό. Il Reale traduce ἐπεὶ δὲ τῶν πράξεων… αὐτὰ δὲ… come segue: «Poiché delle azioni…; e, poiché gli stessi corpi…». A suo giudizio, dunque, il secondo δέ richiamerebbe l'ἐπεί iniziale; ma questo sarebbe possibile solo se il periodo iniziasse con ἐπεὶ μὲν..., non già con ἐπεὶ δὲ… E, poi, donde sbucano questi «corpi»? Riprendiamo il periodo daccapo: ἐπεὶ δὲ τῶν πράξεων ὧν ἔστι πέρας, οὐδεμία τέλος, poiché delle azioni che hanno un termine, nessuna <raggiunge> un risultato, ἀλλὰ τῶν περὶ τὸ τέλος, οἷον τὸ ἰσχναίνειν ἢ ἰσχνασία [αὐτό], ma di quelle che mirano al risultato, ad esempio il dimagrire o dimagramento [stesso],… Ebbene, escluso il richiamo di ἐπεί, la proposizione αὐτὰ δὲ ὅταν ἰσχναίνῃ οὕτως ἐστὶν ἐν κινήσει sembra proprio essere l'inciso dell'inciso, cui abbiamo fatto cenno più sopra; anzi, a nostro parere è la versione sostituente o sostituita, ma corrotta, di ἀλλὰ τῶν περὶ τὸ τέλος οἷον τὸ ἰσχναίνειν. Se siamo nel giusto, αὐτό non è da espungere ma da correggere in <τ>αὐτό, e la frase αὐτὰ δὲ… ἐν κινήσει va espunta. Riassumendo: poiché delle azioni che hanno un termine, nessuna <raggiunge> un risultato – ma delle azioni che tendono ad un risultato, come il dimagrire [ovvero dimagramento], <dicasi> lo stesso, μὴ ὑπάρχοντα ὧν ἕνεκα ἡ κίνησις, non essendo insiti <i risultati> per cui <ha avuto inizio> il movimento, ossia non essendovi, per così dire, incorporati i risultati per cui ecc. –, οὐκ ἔστι ταῦτα πρᾶξις ἢ οὐ τελεία γε· οὐ γὰρ τέλος, questi processi [sub. πράγματα] non sono azione o, quanto meno, non un'azione compiuta: infatti non <v'è> risultato.

II. Dopo aver stabilito che le azioni aventi un termine, sia che esprimano o non esprimano il risultato cui tendono, non sono vere e proprie azioni in quanto non raggiungono alcun risultato, così prosegue il filosofo: ἀλλ' ἐκείνη[13] <ᾗ>[14] ἐνυπάρχει τὸ τέλος καὶ [ἡ][15] πρᾶξις. οἷον ὁρᾷ ἅμα[16] <καὶ ἑώρακε,> καὶ φρονεῖ <καὶ πεφρόνηκε,> καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν, ἀλλ' οὐ μανθάνει καὶ μεμάθηκεν οὐδ' ὑγιάζεται καὶ ὑγίασται, ma quella in cui è insito il risultato, è azione, ad esempio ὁρᾷ ed ἑώρακε, φρονεῖ e πεφρόνηκε, νοεῖ e νενόηκεν, non però μανθάνει e μεμάθηκεν, né ὑγιάζεται e ὑγίασται. Seguono altre due coppie d'esempi (εὖ ζῇ καὶ εὖ ἔζηκεν ἅμα, καὶ εὐδαιμονεῖ καὶ εὐδαιμόνηκεν). Secondo lo Jaeger le parole ἀλλ' οὐ… ὑγίασται sono confluite nel posto sbagliato, poiché anda­vano collocate subito dopo εὐδαιμόνηκεν. Sarebbe difficile essere in disaccordo.
I rispettivi perfetti di ὁρᾷ e φρονεῖ sono integrati dal Bonitz, seguito da tutti gli editori. Ma non è affatto necessario per due ragioni: la prima è che il perfetto di φρονῶ ricorre solo in un passo di Isocrate,[17] e non pare filologicamente corretto integrare una forma verbale attestata da una sola ricorrenza; la seconda ragione è che l'accostamento di ὁρᾷ e φρονεῖ col seguente νοεῖ καὶ νενόηκεν non è casuale. I due verbi, ὁρῶ e φρονῶ, esprimono un'azione in cui è insito il risultato: il risultato di ὁρῶ sta nel vedere, quello di φρονῶ nel percepire; ebbene, non è per avventura che νοῶ comprenda entrambi. La migliore descrizione del significato di νοῶ è data, a nostro parere, dallo Σταματάκος:[18] «Παρατηρῶ τι διὰ τῶν ὀφθαλμῶν ἀλλὰ κατὰ τοιοῦτον τρόπον, ὥστε συγχρόνως κάμνω τὴν διάκρισιν (τοῦ ὁρωμένου ἀπὸ ἄλλων ὁμοίων) διὰ τοῦ νοῦ (διὰ τῆς σκέψεως), νοερῶς παρατηρῶ· διακρίνεται δηλ. ἀπὸ τὸ ἁπλοῦν ὁρῶ, τὸ ὁποῖον ἀφορᾷ τὴν σωματικὴν αἴσθησιν τῆς ὁράσεως σημαῖνον "βλέπω διὰ τῶν ὀφθαλμῶν", ὅπως δεικνύουν π. χ. αἱ ὁμηρ. φράσεις τὸν δὲ ἰδὼν ἐνόησε = ὅταν τὸν εἶδεν, ἀντελήφθη ποῖος ἦτο (τὸν ἐπρόσεξε), οὐκ ἴδεν οὐδ' ἐνόησε = οὔτε μὲ τὰ μάτια τοῦ σώματος εἶδε οὔτε μὲ τὰ μάτια τῆς ψυχῆς παρετήρησεν», «Noto qualcosa con gli occhi, ma in modo tale che contemporaneamente distinguo (da altre simili la cosa vista) con la mente (col pensiero), noto con attenzione: si distingue dunque dal semplice ὁρῶ, il quale attiene al senso fisico della vista significando “vedo con gli occhi”, come mostrano ad es. le frasi omeriche τὸν δὲ ἰδὼν ἐνόησε [Il. 11,599] = quando lo vide, intese chi fosse (lo notò), οὐκ […] ἴδεν οὐδ' ἐνόησε [Od. 16,160] = né vide con gli occhi del corpo né se ne avvide con gli occhi dello mente». Aristotele, quindi, non ha alcun bisogno di accostarvi il perfetto, perché νοεῖ comprende ὁρᾷ e φρονεῖ, ed il perfetto νενόηκεν può tranquillamente valere per entrambi: νοεῖ, si avvede di quel che sta vedendo, e νενόηκεν, si è accorto [= è consapevole] di quel che ha appena visto. Il presente, significando una κίνησις, descrive l'azione in corso di svolgimento; il perfetto, significando un'ἐνέργεια, esprime il τέλος, il risultato, il compimento dell'azione. Ma in questi verbi, che significano azioni in cui è insito il risultato, la differenza tra il presente e il perfetto – abbastanza trascurabile per Aristotele –, è data solo dall'aspetto: il presente ha un aspetto imperfettivo (ἀτελής), mentre il perfetto è un presente perfettivo-stativo.[19] Il filosofo, per chiarire il concetto, offre altri due esempi: εὖ ζῇ καὶ εὖ ἔζηκεν ἅμα, καὶ εὐδαιμονεῖ καὶ εὐδαιμόνηκεν, fa una bella vita e si trova nella condizione di chi finora ha vissuto una bella vita, e ad un tempo[20] la fortuna lo bacia e lo ha (appena) baciato la fortuna.
A questo punto il testo tràdito pare di nuovo malamente raffazzonato; infatti, dovrebbe seguire non già ἀλλ' οὐ μανθάνει κλπ., bensì εἰ δὲ μή, ἔδει ἄν ποτε παύεσθαι ὥσπερ ὅταν ἰσχναίνῃ, νῦν δ' οὔ, altrimenti [= se nei verbi portati ad esempio non vi fosse insito il risultato, se essi verbi non significassero una πρᾶξις], occorrerebbe che (la κίνησις) si fermasse, come quando si dimagrisce, ma qui [= negli esempi citati] non è così. In altre parole, la continuità tra il presente ed il perfetto è in quei verbi tale, che la loro differenza è pressoché trascurabile, poiché, essendovi insito il risultato, κίνησις ed ἐνέργεια quasi, diremmo così, convivono, con la sola differenza che la κίνησις ha il sopravvento nel presente imperfettivo, mentre l'ἐνέργεια lo ha nel presente perfettivo-stativo.
Non così, però,… e qui dovrebbe seguire la contrapposizione: ἀλλ' οὐ μανθάνει καὶ μεμάθηκεν οὐδ' ὑγιάζεται καὶ ὑγίασται, ma non 'sta imparando/studiando' ed 'ha appena imparato/studiato (= sa)' né 'sta guarendo' ed ' è appena guarito (= ora è in buona salute)'. Colla coerente conclusione: τούτων δὴ <δεῖ > τὰς μὲν κινήσεις λέγειν, τὰς δ' ἐνεργείας, di queste, invero, le une (μανθάνει e ὑγιάζεται) occorre dirle movimenti, le altre (μεμάθηκεν e ὑγίασται) risultati.
Quel che segue, prova ulteriormente la miscela di due redazioni ed appare piuttosto scombinato: πᾶσα γὰρ κίνησις ἀτελής, ἰσχνασία μάθησις βάδισις οἰκοδόμησις· αὗται δὴ κινήσεις, καὶ ἀτελεῖς γε. οὐ γὰρ ἅμα βαδίζει καὶ βεβάδικεν, οὐδ' οἰκοδομεῖ καὶ ᾠκοδόμηκεν, οὐδὲ γίγνεται καὶ γέγονεν ἢ κινεῖται καὶ κεκίνηται, ἀλλ' ἕτερον, καὶ κινεῖ καὶ κεκίνηκεν· ἑώρακε δὲ καὶ ὁρᾷ ἅμα τὸ αὐτό, καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν. τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ἐνέργειαν λέγω, ἐκείνην δὲ κίνησιν. Come abbiamo già osservato (v. supra n. 10), asserire che la κίνησις sia ἀτελής, è un'affermazione impropria, poiché Aristotele la definisce ἐνέργεια ἀτελής. Disgiunti, sotto l'aspetto logico, seguono quattro nomina actionis per esemplificare azioni incomplete (ἀτελεῖς γε); infatti non (οὐ γὰρ)… introduce altre coppie di presenti col rispettivo perfetto, il cui senso all'interno dell'argomentazione ci sfugge, giacché si ripete quanto esposto più sopra. Anche l'ultima frase appare sconnessa: ἑώρακε δὲ καὶ ὁρᾷ ἅμα τὸ αὐτό, καὶ νοεῖ καὶ νενόηκεν. τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ἐνέργειαν λέγω, ἐκείνην δὲ κίνησιν, ed ἑώρακε ed ὁρᾷ <valgono> lo stesso, anche νοεῖ e νενόηκεν: dico quest'ultima ἐνέργεια, quell'altra κίνησις. Infatti, l'ordine è invertito: il perfetto precede ὁρᾷ, ma segue νοεῖ; quindi non è chiaro a quale forma verbale dovrebbero riferirsi τοιαύτην ed ἐκείνην! Possiamo solo rilevare l'inequivocabile asserzione che ἑώρακε ed ὁρᾷ si equivalgono.
Da quanto sopra scopriamo che nei verbi il cui significato comprende il risultato, come vedere e notare, il presente ed il perfetto quasi, aggiungiamo noi, si equivalgono; in quelli, invece, il cui significato è περὶ τὸ τέλος, il presente significa esclusivamente l'azione in corso di svolgimento (κίνησις), il perfetto significa altrettanto esclusivamente il risultato raggiunto (ἐνέργεια). Ma soprattutto scopriamo che entrambi i tempi sono relativi al presente, con la sola differenza che il perfetto significa la condizione presente conseguente a quanto è avvenuto, non già quello che è avvenuto. Che senso ha tradurre «nello stesso tempo uno vede e ha veduto, conosce e ha conosciuto, pensa e ha pensato»? In italiano, se dico “vede”, mi riferisco al presente, ma se dico “ha veduto”, mi riferisco ad un passato più o meno vicino! Pur mettendo da parte la questione dell'aspetto verbale, ci chiediamo: com'è possibile che il risultato dell'azione (ἐνέργεια) sia passato, rispetto alla κίνησις che invece precede?!
E nessuno, a quanto pare, sembra essersi accorto di quanto la lingua abbia qui condizionato la speculazione di Aristotele.

III. Qualcuno potrebbe obiettare, citando poet. 1457a17, che è lo stesso Aristotele a riferire il perfetto al passato. Leggiamo: τὸ μὲν γὰρ ἄνθρωπος ἢ λευκὸν οὐ σημαίνει τὸ πότε, τὸ δὲ βαδίζει ἢ βεβάδικεν προσσημαίνει τὸ μὲν τὸν παρόντα χρόνον τὸ δὲ τὸν παρεληλυθότα, che il Gallavotti[21] traduce come segue: «Ma “uomo” oppure “bianco” non esprimono il quando, invece “cammina” o “ha camminato” esprimono, in più, l'uno il tempo presente e l'altro il tempo passato». Sennonché il filosofo non dice παρελθόντα, passato, bensì παρεληλυθότα; quindi la traduzione è fuorviante: ὁ χρόνος ὁ παρεληλυθώς, infatti, non è tout-court il tempo passato, ma lo stato presente conseguente a quanto è avvenuto con o senza soluzione di continuità temporale.

IV. Ora riprendiamo il luogo citato nella nota 8 (phys. 231b31): il filosofo vuol dimostrare che μέγεθος, χρόνος e κίνησις sono strettamente interconnessi. Ancorché come egli dimostri detto stretto legame non sia in questa sede di nostro interesse, ci limitiamo ad estrapolare l'esempio ch'egli propone, preceduto dalla sua introduzione: εἰ δὴ ἀνάγκη τὸ κινούμενον ποθέν ποι, μὴ ἅμα κινεῖσθαι καὶ κεκινῆσθαι οὗ ἐκινεῖτο ὅτε ἐκινεῖτο,[22] se giocoforza la cosa moventesi <si muove> da un punto qualunque verso un altro punto qualunque, essa non è contemporaneamente in movimento e nella condizione di aver appena finito d'essere in movimento là dov'era in movimento quando era in movimento; ed ecco l'esempio: οἷον εἰ Θήβαζέ τι βαδίζει, ἀδύνατον ἅμα βαδίζειν Θήβαζε καὶ βεβαδικέναι Θήβαζε, ad esempio se uno cammina verso Tebe, è impossibile che nello stesso tempo stia camminando verso Tebe ed abbia appena finito di camminare verso Tebe. Orbene, l'accostamento delle due forme verbali ha senso unicamente nel caso che entrambe si riferiscano al tempo presente, altri­menti tale accostamento, che vuole sottolineare la loro differenza, cioè il loro antitetico aspet­to, sarebbe imbarazzante, se solo si pensa che poco prima è il filosofo stesso ad aver ammesso l'impossibilità che passato e presente possano coesistere nello stesso momento.[23]
Ma un altro luogo merita la nostra attenzione, phys. 222b11. Come sopra, non vogliamo addentrarci nei sottili giochi di parole tanto cari al Nostro e veniamo al nocciolo. Per esemplificare quanto ha appena argomentato a proposito del τὸ νῦν, l'istante, Aristotele prende in esame tre avverbi – ἤδη, da/fra poco, ἄρτι, or ora, ed ἐξαίφνης, all'improvviso – e scrive: Tὸ δ' ἤδη τὸ ἐγγύς ἐστι τοῦ παρόντος νῦν ἀτόμου μέρος τοῦ μέλλοντος χρόνου. Πότε βαδίζεις; ἤδη, ὅτι ἐγγὺς ὁ χρόνος ἐν ᾧ μέλλει. Καὶ τοῦ παρεληλυθότος χρόνου τὸ μὴ πόρρω τοῦ νῦν. Πότε βαδίζεις; ἤδη βεβάδικα. Τὸ δὲ Ἴλιον φάναι ἤδη ἑαλωκέναι οὐ λέγομεν, ὅτι πόρρω λίαν τοῦ νῦν, Ἤδη è la parte del tempo futuro vicina al momento presente indivisibile. Quando sei camminante [= ti metti in cammino]? Ἤδη/fra poco, ché è vicino il tempo in cui sta per <farlo>. Ed <è> altresì <la parte> del tempo appena passato non lontana dal momento attuale. Quando sei camminante [= ti metti in cammino]? Ho appena (ἤδη) finito di camminare. Ma non diciamo che è palese [φάναι = tutti sanno] che Ilio è stata da poco espugnata, ché <il fatto> è troppo lontano dal momento attuale.
Aggiungiamo anche ἄρτι, or ora, perché consente qualche utile osservazione: Καὶ τὸ ἄρτι τὸ ἐγγὺς τοῦ παρόντος νῦν [τὸ] μόριον τοῦ παρελθόντος. Πότε ἦλθες; ἄρτι, ἐὰν ᾖ ὁ χρόνος τοῦ ἐνεστῶτος, πάλαι δὲ τὸ πόρρω, Ed ἄρτι/testé è la particella di tempo passato vicina al momento presente. Quando venisti? <Rispondo> testé, se il tempo <è quello> del presente; <rispondo> πάλαι/da tempo se <la particella di tempo è> lontana.
Si noti che, mentre con ἤδη Aristotele pone le due domande dimostrative al presente indicativo, con ἄρτι egli pone la domanda all'aoristo. Non solo: mentre con ἤδη risponde solo alla seconda domanda con un perfetto (βεβάδικα), con ἄρτι la forma verbale di risposta è sottintesa. Ciò non è casuale, ma significa che, mentre ἤδη esprime contiguità dei tempi – e ciò è confermato dal perfetto βεβάδικα –, ἄρτι circoscrive una particella di tempo (μόριον, dice il filosofo, non più μέρος), un attimo, un istante talmente fugace che sfugge al presente stativo significato dal perfetto, il che spiega la domanda all'aoristo (ἦλθες). In altre parole, alla domanda “πότε βαδίζεις;” non è possibile rispondere “ἄρτι βεβάδικα”, poiché il momento significato da ἄρτι non può essere trattenuto nel presente stativo. In tutta la letteratura greca, infatti, ἄρτι non si trova mai connesso col perfetto di βαδίζω.[24] La traduzione di ἄρτι βεβάδικα, dispiegando il senso dell'aspetto verbale, suonerebbe: “Sono poco fa fermo, avendo appena finito di camminare”. Assurdo! La risposta, dunque, alla domanda “πότε ἦλθες;”, dovrebbe essere “ἄρτι δὲ ἦλθον”, ma – a nostra conoscenza – un tale accostamento trovasi, prima dell'era volgare inoltrata, in Eur. Hypp. 510: ἦλθε δ' ἄρτι μοι γνώμης ἔσω (mi vennero poco fa dentro la mente). Per trovare, poi, qualche raro esempio di πότε con l'aoristo di ἔρχομαι, dobbiamo allontanarci da Aristotele di parecchi secoli.[25] È interessante notare come nel suo commento Giovanni Filopono (sec. VI), non essendo più in grado di sentire l'aspetto del perfetto ricerchi la differenza tra ἤδη ed ἄρτι nella loro ipotetica durata.[26]

Concludiamo la presente nota con alcune considerazioni che potrebbero risultare utili.
Tradurre il perfetto dal greco antico in una lingua moderna non è facile e richiede riflessione, ma tradurlo come se fosse un aoristo, perché il senso sembra tornare, non è serio.
Ad esempio, collegandoci alla nota 24, un perfetto che si fatica a considerare come presente stativo è τετελεύτικε, il cui significato è da ricavare dal contesto descritto dallo scrittore conseguente all'aver, il soggetto di τετελεύτικε, finito di vivere. In italiano morire e finir di vivere, ancorché a tutta prima significhino la stessa cosa, in realtà il primo chiama in causa la morte, il secondo la fine della vita: due concetti antitetici. Non solo, mentre θνῄσκω sembra segnalare un evento fatale che al soggetto capita, in τελευτῶ è il soggetto stesso che conduce al fine, conclude la sua stessa vita, τὸν βίον, ancorché l'azione possa essere forzata dagli eventi. In Erodoto detta forma ricorre tre volte in contesti analoghi. In 3,65,24 lo storico fa parlare Cambise, il quale riconosce d'aver fatto uccidere per errore il fratello Smerdi anziché l'altro Smerdi, fratello del Mago, cui aveva affidato l'amministrazione della casa: τὸν μέν νυν μάλιστα χρῆν ἐμέο αἰσχρὰ πρὸς τῶν μάγων πεπονθότος τιμωρέειν ἐμοί, οὗτος μὲν ἀνοσίῳ μόρῳ τετελεύτηκε ὑπὸ τῶν ἑωυτοῦ οἰκηιοτάτων, chi dunque soprattutto occorreva che mi vendicasse, avendo io subito ignominia da parte dei Magi, costui è ora defunto, empio fato, per opera dei suoi familiari più intimi; ed il presente significato dal perfetto τετελεύτηκε è ribadito dal genitivo assoluto che segue: τούτου δὲ μηκέτι ἐόντος, non essendo costui più tra noi.
Un confronto tra due luoghi erodotei potrà essere utile per chiarire meglio il valore temporale del nostro perfetto. In 8,71,5 leggiamo: ὡς γὰρ ἐπύθοντο τάχιστα Πελοποννήσιοι τοὺς ἀμϕὶ Λεωνίδην ἐν Θερμοπύλῃσι τετελευτηκέναι, συνδραμόντες ἐκ τῶν πολίων ἐς τὸν Ἰσθμὸν ἵζοντο, καί σϕι ἐπῆν στρατηγὸς Κλεόμβροτος ὁ Ἁναξανδρίδεω, Λεωνίδεω δὲ ἀδελφεός, non appena i Peloponnesiaci appresero che quelli di Leonida erano defunti [ma la traduzione del perfetto sarebbe: non c'erano più, avendo cessato di vivere] alle Termopili, convergendo di corsa dalle città verso l'Istmo vi prendevano stanza, ed era loro a capo quale stratego Cleombroto, figlio di Anassandrida, fratello di Leonida. In 6,85,1, invece, la costruzione di ἐπύθοντο cambia: τελευτήσαντος δὲ Κλεομένεος ὡς ἐπύθοντο Αἰγινῆται, ἔπεμπον ἐς Σπάρτην ἀγγέλους καταβωσομένους Λευτυχίδεω περὶ τῶν ἐν Ἀθήνῃσι ὁμήρων ἐχομένων, dacché Cleomene aveva cessato di vivere, come gli Egineti (l')appresero, mandavano a Sparta dei messi ad accusare vibratamente Leutichida in merito agli ostaggi ch'erano trattenuti in Atene. L'interprete-traduttore dovrebbe chiedersi perché mai in dipendenza del medesimo verbo che induce ad azioni analoghe espresse col medesimo tempo (ἵζοντο ed ἔπεμπον), lo storico sia ricorso a due costruzioni così diverse. La differenza sostanziale sta in questo: mentre τετελευτηκέναι riversa, per così dire, nel 'presente' l'effetto dell'annuncio dell'avvenuto trapasso, τελευτήσαντος informa semplicemente d'un fatto avvenuto. In altre parole il costrutto ὡς… ἐπύθοντο τάχιστα… τοὺς ἀμϕὶ Λεωνίδην τετελευτηκέναι conferisce una certa drammaticità che in τελευτήσαντος δὲ Κλεομένεος ὡς ἐπύθοντο è assente.
È interessante rilevare che in Isocrate il perfetto indicativo τετελεύτηκε non ricorre mai: l'oratore vi preferisce sempre τὸν βίον ἐτελεύτησεν.
Se sul valore di presente stativo del perfetto qualche dubbio restasse al nostro Lettore, esso sarà fugato da un luogo di Iseo. In pro Euphileto 11,5 si legge: οὗτοι δέ, ἐπειδὴ ἔλαχεν Εὐϕίλητος τὴν δίκην τὴν προτέραν τῷ κοινῷ τῶν δημοτῶν καὶ τῷ τότε δημαρχοῦντι, ὃς νῦν τετελεύτηκε, δύο ἔτη τοῦ διαιτητοῦ τὴν δίαιταν ἔχοντος οὐκ ἐδυνήθησαν οὐδεμίαν μαρτυρίαν εὑρεῖν ὡς οὑτοσὶ ἄλλου τινὸς πατρός ἐστιν ἢ τοῦ ἡμετέρου, costoro, dopo che Eufileto citò per la prima volta in giudizio la comunità dei demoti e dell'allora demarca, che ora non c'è più avendo cessato di vivere, ancorché l'arbitro trattenesse la sentenza per due anni, non sono stati in grado di trovare una testimonianza (attestante) che quest'uomo qui (presente) fosse figlio d'un padre diverso dal nostro. Ebbene l'espressione ὃς νῦν τετελεύτηκε, riferita al demarca deceduto da oltre un anno, non potrebbe essere più esplicativa.

Ora passiamo al Carmide platonico (153b÷c), ove s'incontra per la prima ed unica volta il perfetto ἤγγελται – che riapparirà in Marco Aurelio (8,49), sei secoli dopo! –, seguito da ἀπήγγελται, che ricorre una volta anche in Ippocrate (Prorrh. 3,5) prima di sparire per quattro secoli e ricomparire in Dionigi d'Alicarnasso. Tornato da Potidea, ove aveva valorosamente combattuto, Socrate si reca dopo molto tempo nella palestra di Taurea per gli abituali incontri. Vi erano parecchie persone, le quali, vedendolo, lo salutano da lontano, mentre Cherefonte, ἅτε καὶ μανικὸς ὤν, da mattacchione qual è, balza fuori dal mezzo dei compagni, corre verso Socrate ed afferrandogli la mano gli chiede: ὦ Σώκρατες,… πῶς ἐσώθης ἐκ τῆς μάχης; o Socrate, come ne sei uscito dalla battaglia?… Οὑτωσί,… ὡς σὺ ὁρᾷς. Così, come tu (mi) vedi. Al che Cherefonte aggiunge: καὶ μὴν ἤγγελταί γε δεῦρο… ἥ τε μάχη πάνυ ἰσχυρὰ γεγονέναι καὶ ἐν αὐτῇ πολλοὺς τῶν γνωρίμων τεθνάναι, a proposito!, qui s'è sparsa la notizia che la battaglia è stata dura e vi sono morti molti che conosciamo. E Socrate conferma: καὶ ἐπιεικῶς… ἀληθῆ ἀπήγγελται, è proprio così!, la notizia è vera. I due perfetti ἤγγελτα e ἀπήγγελται sono, come tutti i perfetti, di difficile traduzione: dopo che la notizia è stata portata ad Atene, qual mai può essere la situazione che ne consegue? Ovviamente che essa si diffonda, circoli, ma questi nostri verbi creano un movimento che il perfetto greco non ha: ecco perché abbiamo reso ἤγγελτα con s'è sparsa la notizia/la voce: non è la traduzione perfetta, ma è certamente più corretta che “è stato annunciato”!

Nel Protagora (310e3÷4) Ippocrate di Apollodoro chiede a Socrate d'intercedere in suo favore presso Protagora, affinché questi accetti di renderlo sapiente: infatti, si giustifica Ippocrate, ἐγὼ... ἅμα μὲν καὶ νεώτερός εἰμι, ἅμα δὲ οὐδὲ ἑώρακα Πρωταγόραν πώποτε οὐδ' ἀκήκοα οὐδέν, io… per un verso sono troppo giovane, e per l'altro Protagora non l'ho mai visto, né udito. Questa è più o meno la proposta dei traduttori. Ma essendo quei perfetti dei presenti stativi, quale sarà il loro significato? Basta porsi semplici domande: se non ho mai visto una persona, come posso esprimere la condizione in cui mi trovo? Posso dire che ancora (πώποτε) non la conosco (perché non l'ho mai vista, precisa il perfetto ἑώρακα… unito all'indispensabile πώποτε). E se quella stessa persona, non l'ho mai sentita parlare, come posso dichiararlo al presente? Dirò, nel caso di Protagora, che ne ignoro l'abilità oratoria, che non so come parli. Di qui, una traduzione colloquiale potrebbe essere: in primo luogo sono troppo giovane, e per di più, Protagora, non so che faccia abbia né come parli. – Dall'ἑώρακα, che secondo Aristotele (v. più sopra) equivale a un dipresso ad ὁρῶ, rileviamo che il filosofo ha forzato un poco, per i suoi fini, la quasi identità fra i due presenti. – Poco dopo (311a), Ippocrate riferisce a Socrate: «(Protagora) alloggia, come ho sentito (ὡς ἐγὼ ἤκουσα), da Callia figlio di Ipponico. Andiamo, su!» Più oltre (328d8), dopo il discorso di Protagora, Socrate dichiara all'amico: Ὦ παῖ Ἀπολλοδώρου, ὡς χάριν σοι ἔχω ὅτι προύτρεψάς με ὧδε ἀφικέσθαι· πολλοῦ γὰρ ποιοῦμαι ἀκηκοέναι ἃ ἀκήκοα Πρωταγόρου, o figlio d'Apollodoro, quanta gratitudine ti debbo per avermi spinto a venir qui: tengo davvero in gran conto l'ascolto di quel che Protagora ha da dire, oppure, per meglio aderire al testo greco, star ad ascoltare quel che da Protagora ha appena sentito. L'effetto prodotto dall'aver udito le argomentazioni di Protagora è sottolineato dai due perfetti: le parole del sofista, Socrate, le ha tutte ben presenti alla mente, e la pomposa allocuzione manifesta non troppo velatamente l'ironia; è come se dicesse: “mio buon Ippocrate, quanto sei ingenuo; dopo quel che ho appena sentito, il divertimento comincia adesso!” In ogni caso, tradurre i due perfetti come l'aoristo ἤκουσα, cioè col nostro passato prossimo, è errato.

Tanto significativo quanto ignorato è il contrasto dei tempi che troviamo nell'Apologia (19d): μάρτυρας δὲ αὖ[27] ὑμῶν τοὺς πολλοὺς παρέχομαι, καὶ ἀξιῶ ὑμᾶς ἀλλήλους διδάσκειν τε καὶ φράζειν, ὅσοι ἐμοῦ πώποτε ἀκηκόατε διαλεγομένου – πολλοὶ δὲ ὑμῶν οἱ τοιοῦτοί εἰσιν· φράζετε οὖν ἀλλήλοις εἰ πώποτε ἢ μικρὸν ἢ μέγα ἤκουσέ τις ὑμῶν ἐμοῦ περὶ τῶν τοιούτων διαλεγομένου, καὶ ἐκ τούτου γνώσεσθε ὅτι τοιαῦτ' ἐστὶ καὶ τἆλλα περὶ ἐμοῦ ἃ οἱ πολλοὶ λέγουσιν, anzi, chiamo a testimoni la maggior parte di voi, e mi aspetto che vi consultiate l'un l'altro e vi parliate, tutti quelli di voi (ὅσοι) che, avendomi sentito parlare in una qualche occasione, conoscete quel che avete udito – e molti di voi sono tali [= fra quelli che sanno che cosa ho detto]: ditevi dunque apertamente l'un l'altro se una qualche volta o poco o tanto uno di voi mi ha mai sentito discorrere di tali argomenti; ebbene da questo conoscerete che sono siffatte [= false] anche le altre cose [= accuse] su di me, che i più asseriscono. Con il perfetto ἀκηκόατε Socrate vuol esprimere come presente una condizione stativa: quelli che l'hanno ascoltato sanno bene che cosa hanno sentito; ma quando chiede se qualcuno lo abbia mai sentito parlare o meno di quel determinato argomento, non può assolutamente usare il perfetto, poiché non interessa minimamente l'impressione che a quel qualcuno è rimasta in testa, ma solo se quell'argomento è stato toccato oppure no, e, quindi, ricorre all'aoristo. Di nuovo, tradurre entrambi allo stesso modo, prim'ancora d'essere errato, non è serio!

Ancora, nel Fedone (61d6), all'obiezione di Cebete riguardante l'apparente contraddizione tra l'aspirare alla morte e il non esser lecito darsela, Socrate domanda: οὐκ ἀκηκόατε σύ τε καὶ Σιμμίας περὶ τοιούτων Φιλολάῳ συγεγονότες; E poco oltre (61e5 ss.): κατὰ τί δὴ οὖν ποτε οὔ φασι θεμιτὸν εἶναι αὐτὸν ἑαυτὸν ἀποκτιννύναι, ὦ Σώκρατες; ἤδη γὰρ ἔγωγε, ὅπερ νυνδὴ σὺ ἤρου, καὶ Φιλολάου ἤκουσα, ὅτε παρ' ἡμῖν διῃτᾶτο, ἤδη δὲ καὶ ἄλλων τινῶν, ὡς οὐ δέοι τοῦτο ποιεῖν· σαφὲς δὲ περὶ αὐτῶν οὐδενὸς πώποτε οὐδὲν ἀκήκοα. Anche qui l'aoristo ed il perfetto son tradotti con lo stesso tempo. Orbene, nella domanda di Socrate quale sarà mai il significato di ἀκηκόατε? Ossia, per utilizzare la terminologia di Aristotele, qual mai sarà l'ἐνέργεια raggiunta da ἀκηκόατε rispetto alla κίνησις significata da ἀκούετε? Che ἀκηκόατε equivalga ad ἠκούσατε è fuori questione. Di nuovo, occorre porsi la solita domanda: qual mai può essere la condizione stativa nel presente conseguente all'aver udito ecc.? Come abbiamo osservato a proposito di τετελεύτηκε, non sempre la contiguità tra la fine della κίνησις e il raggiungimento dell'ἐνέργεια è vincolante. Se andiamo a sentire una conferenza, il giorno dopo qualcuno potrebbe chiederci qual è stato l'effetto prodotto dall'aver udito il conferenziere. In italiano le espressioni forse più vicine ad ἀκήκο sono ho negli orecchi, mi risuona negli orecchi, che andranno variate a seconda del contesto. La formulazione negativa della domanda consente di tradurre, ad es.: non ricordate quel che tu e Simmia avete udito in proposito, quando siete stati al seguito di Filolao? In altre parole, ἀκηκόατε non sottolinea l'aver udito, bensì l'effetto prodotto dall'aver udito. Chiede, poi, Cebete: in base a che cosa, dunque, dicono che non sia lecito che uno si uccida, o Socrate? In effetti, io almeno – me l'hai chiesto tu un momento fa – ho già sentito non solo da Filolao, quando stava da noi, ma anche da qualche altro, che non bisognerebbe compiere una tale azione; tuttavia, un'opinione esplicita in proposito non ho in mente d'averla mai sentita da nessuno [oppure: finora non l'ho mai udita da nessuno].

Da ultimo, altre considerazioni, con le quali si chiude la presente nota, possono essere stimolate da un luogo isocrateo, ove μανθάνω ricorre al perfetto e all'aoristo. In Dem. 18 leggiamo: Ἐὰν ᾖς ϕιλομαθὴς, ἔσει πολυμαθής. ῝Α μὲν ἐπίστασαι, ταῦτα διαϕύλαττε ταῖς μελέταις, ἃ δὲ μὴ μεμάθηκας, προσλάμβανε ταῖς ἐπιστήμαις· ὁμοίως γὰρ αἰσχρὸν ἀκούσαντα χρήσιμον λόγον μὴ μαθεῖν καὶ διδόμενόν τι ἀγαθὸν παρὰ τῶν ϕίλων μὴ λαβεῖν. Riportiamo la traduzione di Mario Marzi:[28] «Se sarai desideroso di dottrina, sarai molto dotto. Ciò che sai, conservalo con l'esercizio, ciò che non hai imparato, cerca di aggiungerlo alle tue cognizioni. È altrettanto vergognoso non fare tesoro di un utile discorso che hai ascoltato quanto rifiutare un dono che ti viene offerto dagli amici». Subito si nota che ἃ μὲν ἐπίστασαι ed ἃ δὲ μὴ μεμάθηκας sono proposizioni relative coordinate, ove μὴ μεμάθηκας rende negativo ἐπίστασαι:[29] dunque, le cose che sai…, quelle che non sai... Il Leopardi l'aveva capito benissimo, ed infatti traduce: «… e fa' ogni diligenza d'imparare quello che tu non sai…». L'errore del Marzi, a parte l'ignoranza dell'aspetto verbale del perfetto, è anche logico, perché «… ciò che non hai imparato,… », nella sua ambiguità potrebbe sottintendere una precedente negligenza o un fallimento, supposizioni da respingere in tale contesto. Non solo: come potrebbe Demonico aggiungere alle sue cognizioni «ciò che non ha imparato»? E qui, ancorché non pertinente, dobbiamo rivedere la traduzione che è pienamente errata: προσλάμβανε ταῖς ἐπιστήμαις non significa cerca di aggiungerlo alle tue cognizioni! Il Baiter traduceva: quae non didicisti, cognitione adjungito,[30] ove l'adjungito deve aver fuorviato i traduttori successivi; il Norlin, infatti, intende: «… what you have not learned, seek to add to your knowledge…»,[31] la qual frase («cerca di aggiungerlo alle tue cognizioni») sorprende per l'insulsaggine. Con αἱ ἐπιστῆμαι Isocrate intende le conoscenze certe ricavate dall'esperienza, mentre προσλαμβάνω significa propriamente tiro a me, prendo per me, ottengo. Il successivo γάρ chiarisce il senso inteso da Isocrate: è tanto disdicevole non (voler) apprendere un utile insegnamento che s'è ascoltato, quanto non accettare un bene, che gli amici ti offrono in dono. Dunque, αἱ ἐπιστῆμαι non sarebbero quelle già in possesso di Demonico e per mezzo delle quali acquisirne altre, bensì le conoscenze certe di chi, possedendole, le può comunicare. Così intese il Labanti la cui traduzione suona come segue: «Se sarai bramoso d'imparare, imparerai assai cose. Quelle che hai apprese, debbi custodirle coll'esercizio, quelle che no, dêi procacciarle dai dotti; imperciocchè egli è ugualmente turpe il non apprendere un utile discorso che ascolti, che il non accettare alcun bene, di cui ti facciano un presente gli amici».[32] Mentre il Leopardi compendia abilmente l'una e l'altra soluzione, il Labanti preferisce motivare esplicitamente la proposizione esplicativa che segue; di certo sia il Norlin che il Marzi hanno smarrito la strada. Quanto al μαθεῖν, essendo un aoristo, cioè non essendo determinato dalle circostanze, non può che assumere il significato base senza alcun riferimento al tempo.


NOTE

[1] Giovanni Reale, Introduzione, traduzione e commentario della “Metafisica” di Aristotele. Testo greco a fronte, Milano (Bompiani) 22009, pp. 410÷413).

[2] Il significato di ἰσχναίνειν non è propriamente quello di dimagrire, come lo intendiamo noi moderni, bensì quello di avvizzire, deperire, all'attivo disseccare, prosciugare, attenuare il gonfiore. Infatti, ἰσχναίνειν e i vocaboli aventi la stessa radice appartengono al lessico medico, e pertanto ricorrono con maggior frequenza negli scritti di medicina, massime in Ippocrate e Galeno. Vedremo nel seguito come la traduzione di ἰσχνασία sia qui errata, in quanto il nomen rei actae con radice ἰσχν non esiste, diversamente, per es., dalla radice di μανθάνω, donde si ha il nomen actionis, μάθησις, l'atto dell'apprendere, ed il nomen rei actae, μάθημα, la cosa appresa. Tuttavia, poiché la presente nota prende le mosse dalla traduzione proposta, utilizzeremo, al fine d'evitare confusione, i termini italiani ivi impiegati.

[3] Cf. ibid. p. 1130 s.

[4] Cf. Aristotelis Metaphysica recognovit et enarravit H. Bonitz, pars posterior, Bonnae (Ad. Marcus) 1849, p. 396 s.

[5] Oltre all'inutile ripetizione di taluni esempi, la prova inoppugnabile che si tratti di due redazioni è data dalla frase finale – τὴν μὲν οὖν τοιαύτην ἐνέργειαν λέγω, ἐκείνην δὲ κίνησιν (definisco tale <azione> ἐνέργεια, quella κίνησις) –, che ripete quanto detto poco più sopra: τούτων δὴ <δεῖ> τὰς μὲν κινήσεις λέγειν, τὰς δ ἐνεργείας (di queste <occorre> definire le une κινήσεις, le altre ἐνεργείας). E non solo.

[6] L'infinito presente ἰσχναίνειν, Aristotele l'usa solo qui; esso, poi, ricorre più volte in Ippocrate e Galeno.

[7] Il Reale s'inventa un «tutte» di cui nel testo greco non v'è traccia.

[8] Così, da βαδίζει 'sta camminando' 'è in cammino (per)' non si rileva quale sia il τέλος, né tanto meno il risultato per cui è iniziato il movimento: ma se dico, ad es., βαδίζει Θήβαζε, il τέλος sarà il raggiun­gimento di Tebe, che peraltro βαδίζει non può raggiungere (cf. phys. 231b31).

[9] I codd. hanno, peraltro, τοῦ ἰσχναίνειν ἡ ἰσχνασία. Il τό è una correzione del Bywater che corregge altresì ἡ in ἢ, rendendo τὸ ἰσχναίνειν e ἰσχνασία sinonimi. Il Reale, che pure accoglie queste correzioni, non traduce ἢ ἰσχνασία, bensì ἡ ἰσχνασία!

[10] Anche la frase πᾶσα γὰρ κίνησις ἀτελής, la quale precede i sostantivi ἰσχνασία μάθησις βάδισις οἰκοδόμησις, è quanto mai equivoca, non solo perché viene ripetuta subito dopo (!) – αὗται δὴ κινήσεις, καὶ ἀτελεῖς γε –, ma perché lo stesso filosofo in phys. 3,2,201b,31 scrive: ἡ... κίνησις ἐνέργεια μέν τις εἶναι δοκεῖ, ἀτελὴς δέ, la κίνησις sembra essere in qualche misura una ἐνέργεια, ma incompleta. Nel qual luogo Aristotele usa ἐνέργεια nel medesimo senso che nel capitoletto sotto esame utilizza πρᾶξις. In altre parole non è la κίνησις ad essere ἀτελής, ma l'ἐνέργεια o πρᾶξις.

[11] Cf. Aristotelis Metaphysica, recognovit brevique adnotatione critica instruxit W. Jaeger, Oxonii 1957, p. 184.

[12] Il Bonitz, dunque, intende: “… ad esempio il dimagramento (tende) allo stesso risultato del dimagrire (οἷον τοῦ ἰσχναίνειν ἡ ἰσχνασία αὐτό [sub. τέλος])”. Ma di una tale asserzione sfugge il senso, essendo del tutto inutile.

[13] Il Reale riferisce quest'ἐκείνη a κίνησις, ma è lo stesso Aristotele a parlare di πρᾶξις; quindi il dimostrativo va riferito a πρᾶξις.

[14] ἐκείνη <ᾗ> è congettura del Bonitz, sintatticamente necessaria.

[15] L'espunzione è del Bonitz.

[16] I codd. hanno ἀλλά; la correzione è del Bonitz ed è richiesta dal contesto. Del resto tale errata lettura non è infrequente, quando l'antigrafo è in onciale, che facilita la confusione di M in ΛΛ.

[17] Cf. Phil. 124, ove insieme col precedente ἐγγεγόνασιν è mal tradotto. Il perfetto, soprattutto nel participio, riapparirà, ma molto raramente, nel periodo ellenistico e negli scrittori ecclesiastici.

[18] Ἰωάννης Σταματάκος, Λεξικὸν ἀρχαίας ἑλληνικῆς γλώσσης, Ἀθῆναι (Ἐκδ Οἶκος Π. Δημητράκου) 1949, s.v. Lo Schmidt nella sua Synonymik (III, Leipzig, Teubner 1879, p. 634 s.) dedica uno spazio ben esiguo a questi verbi, e nello Handbuch ripeterà il già detto nella Synonymik.

[19] Le definizioni 'imperfettivo' e 'perfettivo-stativo' sono mutuate da C. Grassi, Problemi di sintassi latina, Firenze (La Nuova Italia) 1966. Il volume contiene due saggi, uno sulla “consecutio temporum” e uno sull'aspetto verbale soprattutto in latino: a nostra conoscenza si tratta della migliore, più chiara e più completa esposizione dei due argomenti in esame.

[20] Gli edd. pongono una virgola dopo ἅμα, ma par chiaro che la seconda coppia precisi la prima.

[21] Aristotele, Dell'arte poetica, Milano (Mondadori) 1974, p. 75.

[22] Οὗ richiama μέγεθος, ὅτε richiama χρόνος.

[23] Cf. phys. 218a25÷30: …εἰ τὸ ἅμα εἶναι κατὰ χρόνον καὶ μήτε πρότερον μήτε ὕσερον τὸ ἐν τῷ αὐτῷ εἶναι καὶ ἐν τῷ νῦν ἐστιν, εἰ τά τε πρότερον καὶ τὰ ὕστερον ἐν τῷ νῦν τῳδί ἐστιν, ἅμα ἂν εἴη τὰ εἰς ἔτος γενόμενα μυριαστὸν τοῖς γενομένοις τήμερον, καὶ οὔτε πρότερον οὔθ' ὕστερον οὐδὲν ἄλλο ἄλλου, se l'essere assieme rispetto al tempo, ossia né prima né dopo, è l'essere nello stesso (tempo) e nello <stesso> istante, se gli eventi del prima e quelli del dopo sono in questo istante qui, gli eventi dell'anno decimillesimo coesisterebbero insieme con gli eventi d'oggidì, e l'un evento non <sarebbe> punto prima o dopo un altro.

[24] E nemmeno, ad es., col perfetto di θνῄσκω. La sola ricorrenza che potrebbe far sorgere qualche dubbio è Soph. Trach. 1130: τέθνηκεν ἀρτίως νεοσϕαγής Qualche interprete disattento traduce: è morta poco fa, uccisa; mentre la traduzione corretta è: è morta, uccisa poco fa.

[25] Col presente lo troviamo per la prima volta in ev. sec. Lucam 17,20: πότε ἔρχεται ἡ βασιλεία τοῦ θεοῦ.

[26] Cf. Ioannis Philoponi in Aristotelis physicorum libros octo commentaria, II, ed. Vitelli, Berolini (Reimer) 1888, p. 762: Τὸ δὲ <ἤδη>, φησίν, ἐστὶ τὸ ἐγγὺς τοῦ παρόντος ἀκαριαίου νῦν, ὅπερ ἤτοι τοῦ παρελθόντος χρόνου μέρος ἐστὶν ἤτοι τοῦ μέλλοντος· λέγεται γὰρ ἐπ ἀμφοτέρων. λεγόντων γὰρ 'πότε βαδίζεις;' φημὶ ὅτι ἤδη, διότι οὐ πολὺ ἀφέστηκε τοῦ ἐνεστῶτος νῦν, ἀλλὰ καὶ ἐπὶ τοῦ παρελθόντος φαμὲν ὅτι ἤδη βεβάδικα, οὐδεὶς μέντοι ἐπὶ τῶν πολὺ ἀφεστηκότων χρόνων λέγει τὸ ἤδη· οὐ γὰρ ἄν τις εἴποι τὸ Ἴλιον ἤδη ἑαλωκέναι, οὐδὲ τὰ μετὰ πολὺν χρόνον ἐσόμενα ἤδη ἔσεσθαι. τί οὖν διοίσει τὸ ἤδη τοῦ πλατικοῦ νῦν; φημὶ οὖν ὅτι ἤτοι τὸ αὐτὸ δι' ἑκατέρου δηλοῦται ὀνόματος, ἤ, εἰ μὴ τὸ αὐτὸ δηλοῦται ἀλλ' ἔχουσί τινα πραγματειώδη διαφοράν, κατὰ τὸ ποσὸν διοίσουσιν, ὅτι τὸ πλατικὸν νῦν ἴσως ἔγγιον μᾶλλόν ἐστι τοῦ ἀκαριαίου νῦν ἤπερ τὸ ἤδη. Τὸ δὲ <ἄρτι> καὶ αὐτὸ μέν ἐστι τὸ ἐγγὺς τοῦ νῦν, ἀλλὰ μόνου τοῦ παρεληλυθότος ἐστὶ μέρος, οὐκέτι δὲ καὶ τοῦ μέλλοντος· 'πότε ἦλθε;' φαμὲν ὅτι ἄρτι, διότι ἐγγὺς ὁ χρόνος τοῦ ἐνεστῶτος νῦν, ἐπὶ μέντοι τοῦ μέλλοντος οὐδεὶς τῶν Ἑλλήνων ἐχρήσατο τῷ ἄρτι (οὐδεὶς γάρ φησιν 'ἄρτι λούσομαι, ἄρτι βαδίσω'), ἀλλ' ἐπὶ μόνου τοῦ παρεληλυθότος. Τὸ δὲ <πάλαι> ἐστί, φησί, τὸ πόρρω τοῦ ἐνεστῶτος· 'πάλαι γέγονε τὰ Τρωικά', ὅτι πολὺν ἀπὸ τοῦ ἐνεστηκότος διεστήκασι χρόνον. Ἤδη, dice <Aristotele>, è l'attimo vicino al fugace presente, che è parte o del tempo passato o di quello futuro: si usa in effetti in entrambi i casi. Alla domanda πότε βαδίζεις? rispondo ἤδη, perché non è molto distante dal momento presente; ma anche per il passato diciamo ἤδη βεβάδικα; <ma> nel caso di tempi molto distanti nessuno di certo dice ἤδη: infatti, uno non direbbe che Ilio è stata espugnata ἤδη, né fatti che avverranno molto in là nel tempo, accadranno ἤδη. Quale, dunque, sarà la differenza tra ἤδη e un momento lungo? Ebbene, dico che o entrambi i nomi significano la stessa cosa, oppure, se non significano la stessa cosa, ma hanno una qualche reale differenza, differiranno per la quantità [= durata], nel senso che il momento lungo è forse più vicino all'attimo fugace di quanto non lo sia ἤδη. E ἄρτι significa anch'esso il momento vicino all'istante (νῦν), ma è parte del solo tempo appena passato, mai però lo è anche del futuro: (alla domanda) πότε ἦλθε? diciamo ἄρτι, perché il tempo del presente istante (νῦν) è vicino; di certo nessun greco usò mai ἄρτι per il futuro (nessuno infatti dice “mi laverò ἄρτι, camminerò ἄρτι), ma solo per il tempo appena passato. E πάλαι, dice <Aristotele>, è il momento lontano dal presente: “<È> tempo fa <che> avvennero i fatti di Troia”, poiché essi sono molto distanti dal tempo presente. — Va subito notato che mentre Aristotele per il tempo “appena passato” usa il participio perfetto (παρεληλυθώς), Filopono usa il participio aoristo (παρελθών), dimostrando così di non sentire più la differenza aspettuale (siamo nel sec. VI). È poi curiosa la distinzione fra τὸ ἀκαριαίον νῦν, l'attimo fugace, e τὸ πλατικὸν νῦν, il momento lungo (anche in italiano “momento” significa quel «minimo spazio di tempo, più lungo però di attimo e d'istante«», cf. F. Palazzi, Novissimo Dizionario della Lingua Italiana, Milano [Ceschina] 21939, riv. e corretta 21957, s.v.).

[27] Gli editori leggono δ' αὐτοὺς, ma ha ragione il Burnet: αὐτοὺς ὑμῶν τοὺς πολλοὺς non regge sintatticamente. Non ci risultano, infatti, esempi analoghi.

[28] Cf. Opere di Isocrate, a cura di Mario Marzi, I, Torino (UTET) 1991, p. 89.

[29] Sugli equivoci che possono imbarazzare nell'utilizzo serrato di μανθάνειν ed ἐπίστασθαι, cf. Plat. Euth. 276e s.

[30] Cf. Isocratis orationes et epistolae, rec. J. G. Baiter, Parisiis (Firmin-Didot) 1869. Una versione latina più chiara potrebbe essere, ad es. : quae quidem scis peretuo studio perge tenere, quae vero (adhuc) ignoras scientia et cognitione comprehende (cf. Cic. comm.pet. 55 e de or. 1,11).

[31] Cf. Isocrates, with an English translation by Gorge Norlin, London (Loeb Classical Library) 1928, p. 15.

[32] Cf. Opere di Isocrate recate dal greco nell'italiano idioma… Da G. M. Labanti, I, In Parigi (Didot) 1813, p. 9.


[2023 © Franco Luigi Viero]