Frederick Niecks

Frederick Nicks, Frederick Chopin as a Man and Musician, London (Novello and Co., Ltd.) 31902, 2 voll.


CAPITOLO XXV
(II, pp. 89÷114)

DUE CONCERTI PUBBLICI, UNO NEL 1841 E UN ALTRO NEL 1842 – COME SUONAVA CHOPIN: QUALITÀ TECNICHE, CONDIZIONI FISICHE FAVOREVOLI, VOLUME DEL SUONO, USO DEI PEDALI, QUALITÀ SPIRITUALI, TEMPO RUBATO, STRUMENTI – SIMPATIE E ANTIPATIE MUSICALI – OPINIONI SU MUSICA E MUSICISTI(*)

I

l concerto che Chopin diede nel 1841, dopo alcuni anni di ritiro, ebbe luogo nei saloni Pleyel lunedì 26 aprile. Come i suoi concerti successivi, più che un concerto pubblico fu un concerto semi-pubblico, poiché l'uditorio era costituito da una selezionata cerchia di allievi, amici ed ammiratori, i quali, come Chopin ebbe a dire a Lenz,(a) acquistavano i biglietti in anticipo e se li spartivano tra loro. Siccome la maggior parte degli allievi apparteneva all'aristocrazia, era naturale che l'evento finisse per divenire quel che Liszt enfaticamente chiama «un concert de fashion». Le tre maggiori riviste musicali di Parigi, la “Gazette Musicale”, la “France Musicale” e il “Ménestrel”, furono unanimi nell'elogiare senza riserve il concertista, «il re della serata, il quale fu sopraffatto dai bravo». Le esecuzioni di Chopin occuparono di gran lunga la maggior parte del programma che fu intervallato da: due arie tratte da La Rose de Péronne di Adam, cantate da Mme Damoreau-Cinti, che fu come al solito ravissante de perfection; dall'Élegie di Ernst, eseguita dal compositore stesso «con grande stile, sentimento appassionato ed una purezza degna dei grandi maestri». Escudier, l'autore della recensione pubblicata da “La France Musicale”, dell'esecuzione di Ernst scrive: «Se volete sentire il violino piangere, ascoltate Ernst; trae suoni così strazianti, così appassionati, da temere di vedere il suo strumento andargli in pezzi tra le mani. È difficile sostenere troppo a lungo tanta tristezza d'espressione, tanta sofferenza e tanta disperazione».
Per dare al lettore un'idea del carattere del concerto, citerò ampiamente la recensione di Liszt, in cui egli non solo rileva i meriti dell'artista,(b) ma descrive altresì la sala e il pubblico. Prima, però, devo raccontare un simpatico aneddoto a proposito di questa recensione. Durante gli intervalli del concerto, Liszt, che s'aggirava tra il pubblico presentando i suoi rispetti qua e là, s'imbatté in Ernest Legouvé, il quale gli manifestò l'intenzione di redigere la recensione di quel concerto per la “Gazette Musicale”; tuttavia, Liszt espresse a sua volta un gran desiderio di scrivere egli stesso una recensione, e Legouvé, ancorché riluttante, gli cedette il passo. Quando la cosa giunse alle orecchie di Chopin, il suo commento fu: “Mi darà un piccolo regno nel suo impero (Il me donnera un petit royaume dans son empire)”.(1) (c) Queste parole la dicono lunga. Ma ecco che cosa Liszt scrisse del concerto sulla “Gazette Musicale” del 2 maggio 1841:(d)

«Lunedì scorso, alle otto di sera, i saloni del Signor Pleyel erano splendidamente illuminati. Dalle molte carrozze continuavano a scendere ai piedi di uno scalone coperto di tappeti e profumato di fiori le dame più eleganti, la gioventù più alla moda, gli artisti più celebri, i finanzieri più ricchi, i nobili più illustri, tutto un mondo d'élite, tutta un'aristocrazia di nascita, di fortuna, di talento e di bellezza.

«Un grande pianoforte a coda era aperto sopra un palco; ci si accalcava intorno, per occupare i posti più vicini; ci si preparava ad ascoltare, ci si raccoglieva, ci si diceva che non bisognava perdere un accordo, una nota, un'intenzione, un pensiero di colui che stava per venire a sedersi là. E la gente aveva ragione d'essere così avida, attenta, religiosamente commossa, perché colui che stava aspettando, che voleva ascoltare, ammirare ed applaudire, non era solo un abile virtuoso, un pianista esperto nell'arte di fare note; non si trattava solo di un artista di grande rinomanza, egli era tutto questo ed ancor più di questo: era Chopin.
« ... Se un minor éclat è legato al suo nome, se un'aureola meno luminosa ha cinto il suo capo, non è perché non vi fosse in lui, forse, la stessa profondità di sentimento dell'illustre autore di Konrad Wallenrod e dei Pellegrini;(2) i suoi mezzi d'espressione erano troppo limitati, il suo strumento troppo imperfetto; con l'aiuto di un pianoforte non poteva rivelarsi nella sua completezza. Di qui, se non ci inganniamo, una sofferenza sorda e continua, una certa ripugnanza a rivelarsi al mondo esterno, una malinconia che si cela sotto apparenze di gaiezza, insomma una personalità unica, rimarchevole ed affascinante in sommo grado.
«... Accadde solo raramente, ad intervalli molto distanti, che Chopin si facesse ascoltare in pubblico; ma proprio ciò che sarebbe stato per chiunque altro causa quasi certa d'oblio e d'oscurità, gli assicurò una reputazione superiore ai capricci della moda e lo mise al riparo dalle rivalità, dalle gelosie e dalle ingiustizie. Chopin, tenutosi al di fuori degli eccessi che da qualche anno spingono l'uno sull'altro, e l'uno contro l'altro, gli artisti-esecutori provenienti da tutte le parti del mondo, è rimasto costantemente attorniato da adepti fedeli, da allievi entusiasti, da calorosi amici che, proteggendolo da rivalità sgradevoli ed attriti penosi, non hanno smesso di diffondere le sue opere e, con esse, l'ammirazione per il suo genio e il rispetto per il suo nome. Così, questa celebrità raffinata, straordinariamente aristocratica, è rimasta pura da ogni attacco. Il totale silenzio della critica è calato su di essa, come se la posterità fosse venuta; e tra lo sfavillante pubblico ch'era accorso presso il poeta da troppo tempo muto, non vi era alcuna riserva né reticenza; tutte le bocche non erano che un coro di lodi.
«… A nuovi pensieri egli ha saputo dare forma nuova. L'elemento selvaggio e violento che gli deriva dalla sua patria, ha trovato espressione in dissonanze ardite, in armonie insolite, mentre la delicatezza e la grazia che gli sono proprie, si sono manifestate in mille contorni, in mille ornamenti di un'inimitabile fantasia.
«Nel concerto di lunedì Chopin aveva scelto di preferenza tra le sue opere quelle che più si discostano dalle forme classiche. Non ha suonato né un concerto, né una sonata, né una fantasia, né variazioni, ma preludi, studi, notturni e mazurche. Rivolgendosi ad una classe sociale più che a un pubblico, poteva impunemente mostrarsi ciò che è, un poeta elegiaco, profondo, casto e sognatore. Non aveva bisogno né di stupire né di sopraffare. Egli cercava simpatie delicate più che fragorosi entusiasmi. Diciamo subito che dette simpatie non gli sono mancate. Dai primi accordi tra lui e il suo uditorio si è stabilita un'intima comunicazione. Due studi e una ballata sono stati richiesti come bis, e, non fosse stato per il timore d'aggiungere fatica alla fatica già grande che il pallore del viso tradiva, sarebbero stati richiesti ad uno ad uno tutti i brani del programma...»


Nel resoconto del concerto pubblicato il 2 maggio 1841 da “La France Musicale”(e) il rapporto artistico fra Chopin ed il pubblico viene in generale caratterizzato in termini coincidenti con quanto riferito da Liszt, ma il seguente stralcio del medesimo articolo potrebbe non risultare sgradito al lettore:

«Abbiamo parlato di Schubert, poiché non v'è un'altra natura che abbia con Chopin un'analogia più completa. L'uno ha fatto per il pianoforte quel che l'altro ha fatto per la voce… Chopin è stato un compositore per convinzione.(f) Egli compone per sé stesso e ciò che compone, lo suona per sé stesso… Chopin è il pianista del sentimento par excellence. Si può dire che Chopin sia il creatore di una scuola pianistica e di una scuola di composizione. Invero, nulla eguaglia la levità e la dolcezza con cui l'artista preludia al pianoforte, nulla può essere messo in parallelo con le sue opere piene di originalità, distinzione e grazia. Chopin è un eccezionale pianista che non dovrebbe essere e non può essere comparato con alcun altro.»

Le parole con le quali il critico del “Ménestrel”(g) chiude la sua recensione, ben descrivono la natura delle emozioni che l'artista produsse sugli ascoltatori:

«Per apprezzare Chopin appieno, bisogna amare le impressioni dolci, occorre avere il sentimento della poesia: ascoltare Chopin è (come) leggere una strofa di Lamartine… Ognuno se n'è andato colmo di una gioia dolce e in profondo raccoglimento (recueillement)».

Il concerto, che fu senza dubbio un completo successo, dovette sodisfare Chopin sotto ogni aspetto.(h) Ad ogni buon conto, egli affrontò di nuovo il pubblico prima che passasse un anno intero.(i) Nella “Gazette Musicale” del 20 febbraio 1842, leggiamo che la sera successiva, lunedì, nei saloni Pleyel la haute société de Paris et tous les artistes s'y donneront rendez-vous. Il programma fu il seguente:

1. Andante seguito dalla 3ième Ballade, eseguiti da Chopin.
2. Felice Donzella, aria di Dessauer.
3. Suite di Notturni, Preludi e Studi, eseguiti da Chopin.
4. Diversi brani di Handel, cantati da Mme Viardot-Garcia.
5. Assolo per Violoncello, eseguito dal Sig. Franchomme.
6. Notturno, Preludi, Mazurche e Improvviso.
7. Le Chêne et le Roseau, cantati da Madame Viardot-Garcia, accompagnata da Chopin.

Maurice Bourges, che una settimana dopo pubblica il resoconto del concerto, precisa più particolarmente che cosa Chopin suonò. Egli menziona tre Mazurche: in la bemolle maggiore, in si maggiore e in la minore; tre Studi: in la bemolle maggiore, in fa minore e in do minore; la Ballata in la bemolle maggiore; quattro Notturni, uno dei quali era quello in fa diesis minore; un Preludio in re bemolle; e un Improvviso in sol (sol bemolle maggiore?). Il resoconto di Maurice Bourges non manca del tutto di una qualche critica. Egli trova l'ornamentazione di Chopin sempre nuova, ma talvolta manierata (maniérées). Egli scrive: « Trop de recherche fine et minutieuse n'est pas quelquefois sans prétention et sans froideur. » Ma nel complesso la critica è molto elogiativa. «Liszt e Thalberg provocano, com'è ben noto, un forte entusiasmo; anche Chopin suscita entusiasmo, ma di minore intensità, di natura meno chiassosa, precisamente perché fa vibrare le corde più intime del cuore».(j)
Dalla recensione della “France Musicale” rileviamo che il pubblico presente non era meno fastoso di quello del primo concerto:

«... Chopin ha dato nei saloni di Pleyel una splendida soirée, una fête tutta popolata di adorabili sorrisi, di visi teneri e rosei, di piccole mani bianche e ben modellate; una festa magnifica dove la semplicità si sposava alla grazia e all'eleganza, e dove il buon gusto serviva da piedistallo alla ricchezza. Quei villani cappelli neri che dànno agli uomini l'aspetto peggiore possibile, erano molto pochi. I nastri dorati, le organze color turchino, le corone di perle tremolanti, le rose e i garofanini più freschi, infine un tripudio dei colori più graziosi e brillanti si assemblavano e s'intersecavano in ogni foggia sulle teste profumate e sulle candide spalle delle dame più affascinanti che i salons principeschi si contendono. Il primo successo della séance è stato per Mme George Sand. Non appena è apparsa con le sue due affascinanti figlie [figlia e cugina?], tutti gli sguardi si sono rivolti verso di lei. Altri sarebbero stati turbati da tutti quegli occhi puntati come altrettante stelle; ma Gorge Sand si accontentava di abbassare la testa e sorridere…».(k)

Questa descrizione è così vivida che sembra di vedere la scena e d'essere uno dei partecipanti; inoltre, essa sottolinea una caratteristica distintiva di questi concerti: la presenza preponderante del gentil sesso. Quanto alla prestazione di Chopin, il redattore osserva che il genere d'esecuzione mirante ad imitare effetti orchestrali non s'addice né alla costituzione di Chopin né alle sue idee:

«… Ascoltando tutti questi suoni, tutte queste sfumature che si susseguono, si concatenano, si separano, si riuniscono per raggiungere uno stesso fine, la melodia, non pensereste d'ascoltare tenui voci di fate che sospirano sotto campane d'argento, o una pioggia di perle che cadono su tavole di cristallo? Le dita del pianista sembrano moltiplicarsi all'infinito; pare impossibile che due mani soltanto possano produrre effetti di rapidità tanto precisi e tanto naturali…»

Ora proverò a dare al lettore un'idea più chiara del modo di suonare di Chopin di quanto possano aver reso le critiche e le descrizioni fin qui citate. E lo faccio non solo per sodisfare una naturale curiosità, ma anche, e più specificamente, per offrire una guida ad una migliore comprensione ed esecuzione delle opere del maestro. Alcuni, vedendo che nessuna musica riflette più chiaramente di quella di Chopin la natura del suo autore, possono pensare che sarebbe più corretto illustrare lo stile pianistico attraverso lo stile compositivo, non già lo stile compositivo attraverso lo stile pianistico. Ebbene, sono due le ragioni che m'inducono a dissentire da loro. La nostra notazione musicale è inadeguata ad esprimere le concezioni dei grandi maestri: i segni grafici non possono esprimere le sottili sfumature del linguaggio delle emozioni, né le capacità di Chopin compositore corrispondevano a quelle dell'esecutore. In altre parole, non possiamo trarre conclusioni sulle peculiarità del suo stile esecutivo dal carattere della Polacca in la maggiore (op. 40) o di quella in la bemolle (op. 53) o, ancora, di alcuni movimenti della Sonata in si bemolle minore (op. 35). Le informazioni contenute nelle note che seguono, derivano in parte da pubblicazioni, in parte da lettere e conversazioni private; non abbiamo accolto nulla che non derivasse dagli allievi, dagli amici di Chopin, e da chi ebbe l'opportunità di sentirlo suonare con frequenza.
Ciò che colpiva tutti quelli che ebbero la fortuna di ascoltare Chopin, era il fatto che egli fosse un pianista sui generis. Moscheles lo definisce un unicum. Mendelssohn lo descrive come “decisamente originale (grundeigenthümlich)”. Meyerbeer affermava di non conoscere nessun pianista, nessun compositore per pianoforte come lui; e potrei continuare con le citazioni ad infinitum. Un collaboratore della “Gazette Musicale” (del 1835, credo), il quale, quantunque all'inizio del suo articolo affianchi l'uno all'altro i nomi di Liszt, Hiller, Chopin e Bertini, nel caratterizzarli si dimostra dotato d'un certo intuito; di Chopin osserva: «Pensiero, stile, concezione, [tutto,] persino la diteggiatura, tutto insomma appare unico, ma di una unicità comunicativa, espansiva, e le cui organizzazioni superficiali disconoscono, esse sole, l'influsso magnetico (… pensée, style, conception, tout, jusqu'au doigté, tout se montre individuel, mais d'une individualité communicative, expansive, et dont les organisations superficielles méconnaissent seules l'influence magnétique)».(l) La posizione di Chopin tra i grandi pianisti del secondo quarto del secolo è stata felicemente caratterizzata da un anonimo contemporaneo: Thalberg, diceva, è un re, Liszt un profeta, Chopin un poeta, Herz un avvocato, Kalkbrenner un menestrello, Mme Pleyel una sibilla e Doehler un pianista.
Tuttavia, se vogliamo che la nostra indagine sia proficua, occorre procedere in modo analitico. Sarà meglio cominciare dalle qualità tecniche. Prima di tutto dobbiamo notare l'elasticità e l'eguaglianza delle dita di Chopin e la perfetta indipendenza delle sue mani. «L'uguaglianza delle sue scale e dei passaggi, in ogni tipo di tocco – scrive Mikuli –, era insuperata, anzi a dirittura favolosa». Gutmann mi diceva che il modo di suonare del suo maestro era particolarmente morbido, e la sua diteggiatura era studiata per ottenere questo risultato. Una gran dama presente all'ultimo concerto parigino di Chopin (1848), dopo ch'egli ebbe suonato tra l'altro il suo Valzer in re bemolle (op. 64 n. 1), avrebbe desiderato conoscere “le secret de Chopin pour que les gammes fussent si coulées sur le piano.” Mme Dubois, che mi riferì l'episodio, aggiunse che l'espressione era azzeccata, poiché questa limpidité delicate non era mai stata eguagliata. La leggerezza, la delicatezza, la nitidezza, l'eleganza e la grazia del modo di suonare di Chopin erano tali che gli valsero il soprannome di Ariele del pianoforte. Il lettore ricorderà quanto Chopin ammirasse queste qualità negli altri artisti, segnatamente in Mlle Sontag e in Kalkbrenner.
Un grado tanto elevato ed un simile livello di eccellenza erano raggiungibili solo, ovviamente, in condizioni eccezionalmente favorevoli, tanto fisiche quanto mentali. La prima e principale condizione era quella di una mano convenientemente formata. Orbene, nessuno può osservare la mano di Chopin, della quale esiste un calco, senza accorgersi subito delle sue capacità. Era, sì, piccola, ma allo stesso tempo affusolata, leggera, delicatamente snodata e, se posso dirlo, molto espressiva. Tutto il corpo di Chopin era straordinariamente flessibile. Secondo Gutmann, egli era in grado, come un clown, di rivoltare le gambe sopra le spalle. Di qui, possiamo facilmente immaginarci quanto grande fosse la flessibilità delle sue mani, cioè di quelle parti del corpo che egli allenò per tutta la vita. In effetti, gli accordi sorprendentemente ampi, gli arpeggi, ecc., che costantemente ricorrono nelle sue composizioni e, fintantoché non fu lui ad introdurli erano impensabili – e sono ancora ben lungi dall'essere d'uso comune –, non gli creavano alcuna difficoltà, anzi li eseguiva non solo senza sforzo, ma a dirittura con compiaciuta facilità e libertà. Stephen Heller mi diceva che era un spettacolo fantastico vedere una di quelle piccole mani espandersi e coprire un terzo della tastiera. Era come l'aprirsi della bocca di un serpente che stia per inghiottire un coniglio intero. Invero, Chopin sembrava fatto di caucciù.
Nei resoconti dei concerti pubblici di Chopin abbiamo incontrato più e più volte l'affermazione ch'egli traeva poco suono dal pianoforte. Ora, sebbene non vi sia dubbio che Chopin non poteva né soggiogare un vasto pubblico né fronteggiare con successo una grande orchestra, sarebbe un errore dedurre da ciò ch'egli fosse sempre un debole e languido esecutore. Stephen Heller, il quale ha dichiarato che Chopin possedeva un suono ricco, ricordava d'averlo sentito suonare un duo con Moscheles (il duo che a Chopin piaceva tanto) e che in quell'occasione il pianista polacco, che aveva insistito per suonare la parte del basso, copriva la parte del suo partner, un virtuoso ben noto per il suo vigore e la sua incisività. Tuttavia, se dovessimo formulare un giudizio sulla base di questa sola prova, giungeremmo ancora ad una conclusione errata. Quando si ha a che fare con questioni musicali – cioè questioni valutate secondo un gusto individuale ed una impressionabilità legata al momento –, la sicurezza è data solo dal numero delle testimonianze. Ascoltiamo, dunque, in primo luogo quel che gli allievi di Chopin hanno da dire al riguardo, e poi andiamo a vedere oltre. Gutmann diceva che Chopin suonava generalmente con molta pacatezza e raramente, e non proprio, fortissimo. Ad esempio, la Polacca in la bemolle maggiore (op. 53), non arrivava a farla tuonare nel modo in cui siamo abituati a sentirla; quanto al famoso passaggio delle ottave, egli le iniziava pianissimo e continuava così senza aumentare di molto il volume. Chopin, poi, non pestava mai. Mathias annota che il suo maestro aveva uno straordinario vigore, ma solo a tratti. La Prefazione di Mikuli alla sua edizione delle opere di Chopin fornisce informazioni più esplicite. Leggiamo:

«Il suono che sapeva trarre dallo strumento, era sempre possente (riesengross), segnatamente nel cantabile; in questo, solo Field, tutt'al più, poteva essergli paragonato. Un'energia virile, nobile conferiva ai passaggi che la richiedevano, un effetto travolgente – energia senza rudezze (Rohheit) –, mentre d'altra parte con la delicatezza della sua esecuzione piena di sentimento – morbidezza senza affettazione – sapeva rapire l'ascoltatore.»

Possiamo sintetizzare questi diversi effetti dicendo col Lenz che, mancando di forza fisica, Chopin poneva ogni attenzione allo stile cantabile, alle connessioni e agli intrecci, (insomma) al dettaglio. Ma due cose sono evidenti e dovrebbero essere notate: 1. il volume del suono, del suono puro che Chopin era in grado di produrre, non era per nulla inconsistente; 2. egli aveva appreso ad amministrare i suoi mezzi tanto da rimediare alla sua debolezza. Quest'ultima affermazione è confermata da alcune osservazioni di Moscheles, già citate, secondo cui il piano di Chopin era sussurrato in modo così delicato che non era necessario un forte vigoroso per ottenere i contrasti desiderati; e che non si sentiva la mancanza degli effetti orchestrali che la scuola tedesca richiede a un pianista, ma ci si lasciava trasportare come da un cantante che presti poca attenzione all'accompagnamento per seguire la sua propria sensibilità.
Nel valutare i resoconti dello stile pianistico di Chopin non dobbiamo tralasciare di considerare il tempo a cui si riferiscono. Ciò che è vero dello Chopin del 1848, non vale per lo Chopin del 1831 o del 1841. Negli ultimi anni della sua vita era divenuto così debole che talvolta, come Stephen Heller ebbe a dirmi, si faticava a sentirlo. Ricorreva ad ogni mezzo per celare la mancanza di vigore, arrivando spesso a modificare l'originaria concezione delle sue composizioni, ma sempre producendo begli effetti. Così, per dare solo un esempio (per cui, come per molte altre interessanti informazioni, sono debitore di Charles Hallé), nel suo ultimo concerto parigino (febbraio 1848) Chopin suonò i due passaggi forte verso la fine della Barcarola non già come sono scritti, ma pianissimo e con ogni sorta di finesses dinamiche. Possedendo i più reconditi misteri del tocco ed essendo padrone, come nessun altro pianista, delle più sottili gradazioni di suono, anche in quell'occasione, ridotto com'era dalla malattia, all'ascoltatore non diede l'impressione di debolezza. Questo, almeno, è quanto riferisce Otto Goldschmidt ch'era presente a quel concerto. Non vi è alcun dubbio che ciò cui Chopin mirava o, piuttosto – lasciatemelo dire –, ciò a cui la sua costituzione fisica gli permetteva di mirare, era la qualità non la quantità del suono. Un redattore del “Ménestrel” (21 ottobre 1849) osserva che per Chopin, diverso in questo da ogni altro pianista, il pianoforte aveva sempre troppo suono e che il suo sforzo costante era di sentimentaliser le timbre, e poneva la massima cura nell'evitare tutto ciò che poteva avvicinarsi al fracas pianistique del tempo.
Ovviamente, il tocco di un artista sottende anche un aspetto tecnico ed uno spirituale. A questo riguardo è impossibile trascurare l'elemento personale che pervadeva e caratterizzava il tocco di Chopin. Marmontel non dimentica di farne menzione nel suo Pianistes Célèbres. Scrive infatti:

«Nell'arte meravigliosa di condurre e di modulare il suono, nel modo espressivo, melanconico di variarlo, Chopin era tutto se stesso. Egli aveva un modo affatto personale di afferrare la tastiera, un tocco morbido, soffice, con effetti sonori d'una vaporosa fluidità di cui egli solo conosceva il segreto (Où Chopin était tout à fait lui-même, c'était dans l'art merveilleux de conduire et de moduler le son, dans la manière espressive, mélancolique de le nuancer. Chopin avait une façon toute personnelle d'attaquer le clavier, un toucher souple, moelleux, des effets de sonorité d'une fluidité vaporeuse dont lui seul connaissait le secret).»(m)

In relazione alla produzione del suono di Chopin non devo omettere di menzionare il suo felice utilizzo di entrambi i pedali. Fu solo con Liszt, Thalberg e Chopin che i pedali divennero un punto di forza nell'arte di suonare il pianoforte. Hummel non ne comprendeva l'importanza e mancò di trarne vantaggio. Le rare indicazioni che troviamo nelle opere di Beethoven provano che questo genio iniziò a scorgerne alcune delle possibilità ancora latenti. Tra i virtuosi fu Moscheles il primo a fare un uso esteso ed artistico dei pedali, per quanto anch'egli ne facesse un parco uso rispetto ai suoi giovani contemporanei appena citati.
Ogni pianista di livello possiede, ovviamente, il suo proprio stile d'usare il pedale. Purtroppo, non si hanno informazioni specifiche riguardo allo stile di Chopin, ed è un peccato dacché come compositore le indicazioni di pedale non sono per nulla accurate. Rubinstein dichiara che la maggior parte delle indicazioni di pedale nelle composizioni di Chopin sono errate. Se non altro, sappiamo almeno che «nessun pianista prima di lui ha impiegato i pedali alternativamente o simultaneamente con tanto tatto ed abilità (nul pianiste avant lui n'a employé les pédales alternativement ou réunies avec autant de tact et d'habileté)», e che «servendosi costantemente del pedale, otteneva armonie radiose, riverberi melodici che stupivano ed affascinavano (en se servant constamment de la pédale, obtenait des harmonies ravissantes, des bruissements mélodiques qui étonnaient et charmaient)».(3) (n)
Le qualità poetiche del modo di suonare di Chopin non sono così facilmente definibili come quelle tecniche; invero, se lo sono, possono esserlo solo da chi, come Liszt, è un poeta tanto quanto un grande pianista. Perciò, trascriverò dal suo libro alcune delle osservazioni più importanti relative a questo aspetto.
Dopo aver detto che Chopin idealizzava la poesia fuggevole ispirata da apparizioni fuggevoli come La Fée aux Miettes, Le Lutin d'Argail, ecc., fino a renderne le fibre così tenui e così fragili da sembrare di non appartenere più alla nostra natura, ma di svelarci le confidenze indiscrete delle Ondine, delle Titanie, degli Arieli, delle regine Mab e degli Oberon, Liszt prosegue così:

«Quando questo genere di ispirazione s'impadroniva di Chopin, il suo modo di suonare assumeva una carattere particolare, quale che fosse il genere di musica che eseguiva: musica di danza o musica sognante, mazurche o notturni, preludi o scherzi, valzer o tarantelle, studi o ballate. Imprimeva a tutte non si saprebbe dire quale colore senza nome, quale apparenza indeterminata, quali pulsazioni simili ad una vibrazione, che non avevano quasi nulla di materiale e, come gli imponderabili, sembravano agire sull'essere senza passare per i sensi. Talvolta sembrava di sentire i gioiosi scalpiccii di qualche Peri amorosamente dispettosa; talaltra, erano modulazioni vellutate e cangianti come il manto di una salamandra; altre ancora, si percepivano accenti profondamente scoraggiati, come se anime in pena non trovassero le pie preghiere necessarie alla loro liberazione finale. Altre volte, dalle sue dita esalava una disperazione così cupa, così inconsolabile, che si credeva di veder rivivere lo Jacopo Foscari di Byron, di contemplare la prostrazione di colui che, morendo d'amore per la sua patria, preferiva la morte all'esilio, non potendo sopportare di lasciare Venezia la bella(o)

È interessante confrontare questa descrizione con quella di un altro poeta, un poeta, la cui sensibilità poetica è tanto raffinata nei versi quanto involuta nella prosa. Liszt ci dice che nell'immaginazione e nel talento di Chopin v'era qualcosa «qui, par la pureté de sa diction, par ses accointances avec La Fée aux Miettes et Le Lutin d'Argail, par ses rencontres de Séraphine et de Diane, murmurant à son oreille leurs plus confidentielles plaintes, leurs rêves les plus innommés»,.(4) (p) gli ricordava Nodier. Ora, quali pensieri richiamava alla mente di Heine il modo di suonare di Chopin?

«Sì, bisogna ammettere che Chopin è un genio nel vero senso della parola. Egli non è solo un virtuoso, ma è anche un poeta: può farci percepire la poesia che vive nella sua anima. Ed è un compositore: nulla può essere paragonato al piacere che ci dà quando siede al pianoforte ed improvvisa. Allora non è né polacco, né francese, né tedesco. La sua origine è molto più elevata: proviene dalla terra di Mozart, Raffaello e Goethe; la sua vera patria è il regno incantato della poesia. Quando siede al pianoforte ed improvvisa sento come se un compatriotta venisse a farmi visita dal nostro beneamato paese e mi raccontasse le cose più curiose che sono accadute durante la mia assenza… A volte vorrei interromperlo per chiedergli: «E come va la bella ondina che sapeva annodare tanto graziosamente il suo argenteo velo intorno ai suoi verdi boccoli? Il vecchio dio del mare dalla bianca barba la insegue sempre con il suo folle amore inveterato? Le rose a casa nostra sono sempre infiammate d'orgoglio? Gli alberi cantano sempre canti così belli al chiaro di luna?…»(q)

Ma torniamo a Liszt. Poco dopo il passaggio sopra citato egli dice:

«Quando suonava, il grande artista rendeva in modo incantevole questo tipo di trepidazione commossa, timida o ansante, che prende al cuore allorché ci si crede nelle vicinanze di esseri sovrannaturali, in presenza di coloro che non si sa né come immaginare, né come afferrare, né come abbracciare, né come incantare. Faceva sempre ondeggiare la melodia come un battellino sulla cresta dell'onda potente; oppure, la faceva muovere indecisa come un'apparizione vaporosa sorta all'improvviso in questo mondo tangibile e palpabile. Nei suoi scritti egli indicò, all'inizio, questo modo che conferiva un'impronta così particolare al suo virtuosismo, con l'espressione tempo rubato: tempo frammezzato, soffice, rude ed insieme languido, vacillante come una fiamma sotto il soffio che l'agita, come le spighe d'un campo mosse dalla morbida pressione d'un caldo vento, come la cima di alberi che si piegano di qua e di là per l'incostanza di una brezza pungente.

«Ma, dacché quell'espressione che non insegnava nulla a chi sapeva, né rivelava alcunché a chi non sapeva, non capiva, non sentiva, Chopin smise poi d'aggiungere questa spiegazione alla sua musica, persuaso che, se uno ne avesse avuto l'intelligenza, non avrebbe potuto non intuire questa regola d'irregolarità. Così, tutte le sue composizioni vanno suonate con questa sorta di balancement accentuato e prosodico, con questa morbidezza, di cui era difficile cogliere il segreto se non la si fosse sentita sovente da lui stesso.»(r)

Orbene, vediamo se è possibile avere un'idea più chiara di questo misterioso tempo rubato. Fra gli strumentisti il rubato andò in voga soprattutto ad opera di Chopin e di Liszt, ma non è una loro invenzione o del loro tempo. Quanz, il grande flautista (v. Marpurg, Kritische Beiträge, vol. I.), diceva d'averlo sentito per la prima volta dalla celebre cantante Santa Stella Lotti, che venne ingaggiata nel 1717 dall'Opera di Dresda, e che morì nel 1759 a Venezia.(s) Soprattutto, però, dobbiamo tenere presente che il tempo rubato è un genere che comprende numerose specie. In breve, il tempo rubato di Chopin non è quello di Liszt, e quello di Liszt non è quello di Henselt, e così di seguito. Quanto alle definizioni che troviamo nei dizionari, esse non possono offrire apprezzabili chiarimenti, che tuttavia possiamo trovare da qualche altra parte. Liszt spiegò il tempo rubato di Chopin in modo poetico e vivido ad un suo allievo, il pianista russo Neilissoff: “Guarda queste piante! – disse –, il vento gioca tra le foglie, suscita la vita tra loro, l'albero resta il medesimo: questo è il rubato chopiniano”. E il compositore stesso, come lo descriveva? Da Mme Dubois e da altri allievi di Chopin apprendiamo che egli usava dire loro: “Que votre main gauche soit votre maître de chapelle et garde toujours la mesure (Che la vostra mano sinistra sia il vostro maestro di cappella ed osservi sempre il tempo)”. Secondo Lenz, Chopin insegnava anche: “Supposto che un pezzo duri un certo numero di minuti, se il tutto è durato tanto così, le differenze nei dettagli non importano (Angenommen, ein Stück dauert so und so viel Minuten, wenn das Ganze nur so lange gedauert hat, im Einzelnen kann's anders sein)!”(t) È questo un insegnamento piuttosto ambiguo, che sembra in contraddizione col precetto precedente. Mikuli, un altro allievo di Chopin, spiega così il tempo rubato del suo maestro: «La mano che accompagnava, suonava sempre rigorosamente a tempo, mentre l'altra, cantante, sia che esitando ritardasse, sia che anticipasse o accelerasse con una certa impaziente veemenza come in un appassionato discorso, lasciava che la verità dell'espressione musicale fosse libera da ogni vincolo ritmico». Abbiamo una lucidissima descrizione del tempo rubato di Chopin redatta dal critico di "Athenaeum", il quale, dopo aver ascoltato il pianista-compositore ad una matinée londinese nel 1848, scrisse: «Egli fa libero uso del tempo rubato, ondeggiando entro le sue battute più di ogni altro esecutore che ricordiamo, e tuttavia soggetto a un dominante senso del tempo, cosicché abitua subito l'orecchio alle libertà prese».(u) Spesso, non v'è dubbio, la gente confuse il tempo rubato con quel che in realtà era una soppressione o spostamento d'accento, un tipo di pratica esecutiva, cui l'espressione fu in effetti applicata. Il lettore ricorderà il seguente stralcio da una recensione della "Wiener Theaterzeitung" del 1829: «Vi sono difetti degni di nota nel modo di suonare del giovane [Chopin], fra cui in particolare va forse menzionata la non osservanza dell'accento all'inizio delle frasi musicali». Hallé mi ha riferito di un'interessante disputa in relazione a quest'argomento. Un giorno il pianista tedesco disse a Chopin che suonava le sue mazurche in 4/4 invece che in ¾. Sulle prime Chopin non voleva ammetterlo, ma, quando Hallé lo provò mettendosi a contare mentre Chopin suonava, questi ammise la correttezza dell'osservazione e, ridendo, disse che questo era nazionale.(v) Lenz riferisce una simile disputa tra Chopin e Meyerbeer. In breve, possiamo condensare, con le parole di Moscheles, che il modo di suonare di Chopin non degenerava in Tactlosigkeit [lett., assenza di tempo], ma era della più accattivante originalità. In linea con la testimonianza riferita, dobbiamo tuttavia rilevare quel che Berlioz diceva in proposito: "Chopin supportait mal le frein de la mesure; il a poussé beaucoup trop loin, selon moi, l'independance rhythmique." Ma Berlioz si spinse persino a dire che "Chopin non poteva suonare a tempo (ne pouvait pas jouer régulièrement)."(w)
Invero, lo stile di Chopin era così strano che, quando Charles Hallé gli sentì suonare per la prima volta le proprie composizioni, non riusciva ad immaginare come si potesse rappresentare per iscritto quel che sentiva. Tuttavia, per quanto strano fosse il modo di suonare di Chopin, egli ritiene che le sue peculiarità siano in genere esagerate.(x) Di Rubinstein interprete di Chopin i parigini dicevano: “ Ce n'est pas ça! ” Lo stesso Hallé ritiene che Rubinstein interpreti Chopin con abilità, ma non in modo chopiniano. Né le letture di von Bülow si avvicinano all'originale. Quanto agli allievi di Chopin, essi riescono ancor meno di altri ad imitare lo stile del loro maestro. L'opinione di un insigne pianista come Hallé, il quale ad un tempo ha conosciuto bene Chopin, va considerata. Ascoltando spesso il compositore suonare le sue composizioni, aveva acquisito una tale familiarità con la musica del maestro e la sentiva talmente sua che a Chopin piaceva sentirgliela suonare e gli diceva che, stando nella stanza accanto, quasi pensava che fosse lui stesso a suonare.
Ora, con l'aiuto di Lenz, è tempo di uscire dalle secche ove abbiamo indugiato così a lungo:

«Nell'ondeggiare del movimento, in questo oscillare ed ansimare (Hangen und Bangen), nel rubato così come lo intendeva, Chopin ti rapiva: ogni nota era il prodotto del gusto più squisito, nel senso più alto della parola. Se introduceva un abbellimento – il che capitava solo raramente –, era sempre una specie di miracolo di buon gusto. Per sua natura Chopin non era fatto per rendere Beethoven o Weber, che dipingono a tratti decisi e con grandi pennelli. Chopin era un artista del pastello (Pastellmaler), ma incomparabile! A fianco di Liszt poteva passare con onore per la degna consorte di lui (ebenbürtige Frau, cioè di pari rango). La Sonata op. 106 in si bem. maggiore di Beethoven e Chopin si escludono a vicenda.»(y)

Un giorno Chopin condusse Lenz dalla baronessa Krüdner e dall'amica di lei, la contessa Cheremietieff cui aveva promesso di suonare le variazioni della Sonata di Beethoven in la bem. maggiore (op. 26). Come le suonò?

«Bene – dice Lenz –, ma non così bene come le sue cose, non coinvolgente (nicht packend), non en relief, non come un racconto che cresce di variazione in variazione. Sussurrava a mezza voce, ma in modo incomparabile nella cantilena, infinitamente compiuto nel fraseggio, idealmente bello, ma femmineo! Beethoven è un uomo e non smette mai di esserlo!

«Chopin suonava su un Pleyel; non dava lezione su nessun altro strumento; si doveva prendere un Pleyel. Erano tutti in estasi, anch'io lo ero, ma solo per il suono di Chopin, per il suo tocco, per la sua leggiadria e la grazia, per la purezza del suo stile.»(z)

La purezza stilistica, l'autocontrollo e l'aristocratico riserbo di Chopin sono da rimarcare soprattutto da noi che siamo abituati a sentire le composizioni del maestro suonate in modo sregolato, delirante e pomposo. Le osservazioni di J. B. Cramer riguardanti Chopin sono significative. Il maestro dell'età passata disse del maestro della fiorente generazione:

«Non lo capisco, ma suona bene ed in modo corretto, oh, molto corretto; non si lascia andare come gli altri giovani, ma non lo capisco.»(aa)

Quel che si legge e si sente sul modo di suonare di Chopin concorda con quanto riferito dal suo allievo Mikuli, il quale osserva che, con il fervore che gli era proprio in così alto grado, la sua esecuzione era sempre equilibrata (massvoll), pudica, anzi nobile e talvolta persino austera. Tornando dalla visita alle menzionate gentildonne russe, Lenz espresse la sua opinione sull'interpretazione delle variazioni beethoveniane, ed il maestro replicò stizzito: “Io indico (j'indique); spetta all'ascoltatore completare (parachever) il quadro”.(ab) Dopodiché, mentre Chopin nella stanza accanto si stava cambiando i vestiti, Lenz commise l'impertinenza(ac) di suonare il tema di Beethoven come lo intendeva: Chopin uscì ancora in maniche di camicia, si sedette accanto a lui e, alla fine del tema, posò la mano sulla spalla di Lenz e disse: “Lo dirò a Liszt. Non mi era mai capitato prima: sì, è bello, ma si deve sempre parlare in modo così stentoreo (si déclamatoirement)?”. Il corsivo nel testo, non quello in parentesi, è mio; ho voluto così segnalare alcune parole di Chopin, affinché abbiano l'attenzione che meritano.
“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Parodiando quest'aforisma, si potrebbe dire con non poca verità: dimmi che pianoforte usi e ti dirò che tipo di pianista sei. A questo riguardo Liszt ci dà ogni informazione desiderabile, ma anche Lenz, come abbiamo visto, ha toccato l'argomento. Liszt scrive:

«Quando Chopin era forte ed in salute, come durante i primi anni della sua residenza in Parigi, suonava abitualmente su un Erard; ma, dopo che il suo amico Pleyel gli fece dono di uno dei suoi splendidi strumenti, notevoli per il loro timbro metallico ed il tocco molto leggero, egli non voleva più suonare su uno strumento fabbricato da altri.

«Se veniva invitato per una soirée a casa di uno dei suoi amici polacchi o francesi, spesso inviava il suo proprio strumento, se in quella casa non vi era un Pleyel.(ad)
«Chopin preferiva (affectionnait) i pianoforti Pleyel, in particolare per la loro sonorità argentina un po' velata e per il facile tocco che gli permetteva di trarne suoni che si sarebbe potuto credere appartenere a quelle armoniche di cui la romantica Germania conservava il monopolio e che i suoi antichi maestri costruivano con tanto ingegno, sposando il cristallo all'acqua.»(ae)

Chopin stesso diceva:

«Quando sono indisposto, suono su un Erard e vi trovo facilmente un suono già fatto. Ma quando mi sento ben disposto e abbastanza forte per trovare il mio proprio suono, allora devo avere un Pleyel.»(af)

Dal fatto che durante la sua visita in Gran Bretagna nel 1848 Chopin suonasse sia nei concerti pubblici sia nelle riunioni private su strumenti di Broadwood, possiamo dedurre che egli apprezzasse anche i pianoforti di questa ditta. In una lettera datata Londra, 48 Dover Street, 6 maggio 1848, egli scrive a Gutmann: « Érard a été charmant, il m'a fait poser un piano. J'ai un de Broadwood et un de Pleyel, ce qui fait 3, et je ne trouve pas encore le temps pour les jouer ».(ag) E in una lettera datata Edimburgo, 6 agosto / Calder House, 11 agosto, egli scrive a Franchomme: «Ho un Broadwood nella mia stanza, e il Pleyel di Miss Stirling nel salon (j'ai un piano de Broadwood dans ma chambre, le Pleyel de Miss St. au salon)».
Credo sia questa la sede più opportuna per inserire quel che ho appreso sul gusto musicale di Chopin, sulle sue opinioni in fatto di musica e musicisti; il che illustrerà forse meglio di qualsiasi altro aspetto trattato in questo libro il carattere dell'uomo e dell'artista. Le sue opinioni sui compositori e sulle opere musicali mostrano ch'egli possedeva al più alto grado les vices de ses qualités. La delicatezza della sua costituzione ed i modi oltremisura raffinati, che giustificano l'inimitabile fascino che la tenerezza più delicata e la grazia conferiscono alle sue composizioni e conferivano al suo modo di suonare, costituivano ad un tempo difetti e pregi. «Ogni forma di rudezza selvaggia (toutes les rudesses sauvages) lo ripugnava,» scrive Liszt. «In musica, come in letteratura, come pure nel vivere quotidiano, tutto ciò che si tingeva di melodrammatico, era per lui un supplizio».(ah) In breve, Chopin era un aristocratico con tutte le insofferenze di un aristocratico.
L'incapacità degli uomini di genio d'apprezzare il merito di uno o dell'altro dei suoi predecessori e, più specificamente, dei loro contemporanei è stata spesso oggetto di commenti e di stupore, ma dubito davvero molto che si possa citare un musicista, il quale abbia avuto simpatie così limitate come quelle di Chopin. Oltre ad essere importante sotto l'aspetto biografico, documentare le simpatie e le antipatie del maestro sarà di utile insegnamento al critico e fornirà a chi si occupa di psicologia, materiale interessante.
Più di tutti i compositori, viventi o trapassati, Chopin ammirò Mozart. Lo considerava come «l'ideale, il poeta par excellence».(ai) Si racconta – con quanta verità non so – che Chopin non viaggiasse mai senza portare nel suo bagaglio la partitura del Don Giovanni o quella del Requiem. Significativa, ancorché non fondata su fatti, la voce secondo cui egli espresse il desiderio che al suo funerale venisse eseguito il Requiem. Tuttavia, a dimostrare il suo amore per il grande maestro austriaco non vi è nulla di più inequivocabile e più toccante delle parole ch'egli sul letto di morte rivolse ai suoi cari amici, la principessa Czartoryska e Franchomme: “Suonerete Mozart insieme ed io vi ascolterò”. E perché Chopin considerava Mozart l'ideale, il poeta par excellence? Risponde Liszt: «Perché (Mozart) accettava più raramente d'ogni altro compositore d'oltrepassare la soglia che separa la distinzione dalla volgarità».(aj) Ma quel che senza dubbio faceva più particolarmente vibrare le corde del cuore di Chopin e suscitava in lui un'amorevole ammirazione per il maestro del passato erano la dolcezza, la grazia e l'armonia che nelle opere di Mozart regnano supreme ed imperturbate: una bellezza perfetta, insuperata ed insuperabile, ed una squisita perfezione come risultato della totale assenza di ogni traccia di rigidità, durezza, goffaggine, insania ed eccentricità. E, tuttavia, Liszt dice di Chopin:

«Il suo sibaritismo quanto alla purezza, il suo timore del luogo comune erano tali che perfino nel Don Giovanni, persino in quest'immortale chef-d'œuvre, aveva scoperto passaggi della cui presenza lo abbiamo sentito rammaricarsi. Ciononostante il suo culto per Mozart non era diminuito, ma come rattristato.»(ak)

Il compositore che, accanto a Mozart, Chopin apprezzava sommamente era Bach. «Era difficile dire,» osserva Mikuli, «quale dei due amasse di più». Come è gia stato ricordato, Chopin non solo aveva opere di Bach sul suo scrittoio a Valldemosa, correggeva l'edizione parigina per il suo proprio uso(al) e si preparava ad un concerto suonando Bach,(am) ma faceva anche studiare ai suoi allievi le suites, le partite ed i preludi e fughe. Mme Dubois mi disse che nel suo ultimo incontro con lui (nel 1848), egli le raccomandò “ de toujours travailler Bach ”, aggiungendo che questo sarebbe stato il mezzo migliore per fare progressi.
Hummel, Field e Moscheles erano gli autori per pianoforte, che sembravano dargli maggior sodisfazione. Mozart e Bach erano i suoi dèi, mentre questi altri erano i suoi amici. Gutmann mi comunicò che Chopin gradiva in particolare Hummel; Liszt scrive che Hummel era uno dei compositori che Chopin continuava a suonare col più grande piacere;(an) e da Mikuli sappiamo che delle composizioni di Hummel il suo maestro amava soprattutto la Fantasia, il Settetto e i Concerti. L'affermazione di Liszt, secondo cui i Notturni di Field erano considerati da Chopin come insuffisants mi sembra confutata da prove ineccepibili.(ao) Chopin faceva studiare i Notturni di Field ai suoi allievi con assiduità e scrupolo, così come i Concerti, e Field era, per usare le parole di Mme Dubois, “un autore molto congeniale a lui”. Mikuli riferisce che Chopin aveva una predilezione per il Concerto il la bemolle e per i Notturni, suonando i quali era solito improvvisare le più seducenti fioriture. Prendersi delle libertà con le opere di un altro artista e lamentarsi quando un altro artista si prende delle libertà con le vostre proprie opere è quanto meno contraddittorio, non è vero? Ma è del tutto umano, e Chopin non era esente da questo comune difetto. Un giorno, quando Liszt fece con alcune composizioni di Chopin quello che Chopin aveva l'abitudine di fare con i Notturni di Field, si dice che il compositore furente intimasse all'amico di suonare le sue composizioni com'erano scritte, altrimenti di lasciarle stare. Marmontel scrive:

«Sia per profondo amore dell'arte sia per eccesso di conscience personelle, Chopin non poteva sopportare che si alterasse il testo delle sue opere. La più lieve modifica gli sembrava una grave mancanza che non perdonava nemmeno agl'intimi, non escluso Liszt, suo fervente ammiratore. Più volte, come pure il mio maestro Zimmermann, ho fatto suonare come pezzi d'esame le sonate, i concerti, le ballate e gli allegro di Chopin, ma, dovendomi limitare ad una parte dell'opera, soffrivo al pensiero di ferire il compositore che considerava queste licenze come un vero sacrilegio.»(ap)

Questa, però, è una digressione. Vi è poco da aggiungere a ciò che del terzo compositore del gruppo di cui stiamo parlando, è già stato detto in un altro capitolo. Chopin – il lettore ricorderà – diceva a Moscheles di amare la sua musica, e Moscheles ammetteva che Chopin, il quale così lo complimentava, la conosceva a fondo. Da Mikuli sappiamo che gli studi di Moscheles erano molto congeniali al suo maestro. Quanto ai duo di Moscheles, probabilmente Chopin li suonava più frequentemente delle opere di qualsiasi altro compositore, eccettuate ovviamente le sue proprie. Sappiamo che li suonava non solo con i suoi allievi, ma anche con Osborne, Moscheles stesso e Liszt, il quale mi riferì che a Chopin piaceva molto suonare con lui i duo di Moscheles e Hummel.
Parlare di duo mi fa venire in mente Schubert che, secondo quanto riferitomi da Gutmann, era uno dei favoriti di Chopin. Il Divertissement hongrois del maestro viennese era apprezzato senza riserve; con i suoi allievi Chopin suonava anche le marce e le polacche à quatre mains. Tuttavia sembra che il suo répertoire didattico, ad eccezione dei valzer, non contenesse alcuna delle composizioni à deux mains, non le sonate, non gli improvvisi, non i Momenti musicali. Ciò significa che, se Schubert era uno dei compositori favoriti di Chopin, lo era solo fino ad un certo punto. Invero, Chopin trovava cedimenti persino là dove il maestro è universalmente considerato come facile princeps. Liszt annota:

«A malgrado del fascino ch'egli riconosceva ad alcune delle melodie di Schubert, non ascoltava volentieri quelle i cui contorni erano troppo pungenti per le sue orecchie, dove il sentimento è come denudato, dove si sente, per così dire, la carne palpitare e le ossa rompersi sotto la stretta del dolore.(aq) … À propos di Schubert, un giorno disse “che il sublime si guastava quand'era seguito dal banale e dal triviale”.»(ar)

Ora menzionerò alcuni di quei compositori che Chopin gradiva meno. Nel caso di Weber, però, pare che la sua approvazione superasse la sua critica: Mikuli, almeno, riferisce che la Sonata in mi minore, quella in la bemolle maggiore ed il Concertstück erano tra quelle opere che il maestro prediligeva; e Mme Dubois afferma che ai suoi allievi faceva studiare le Sonate in do e in la bemolle maggiore con estrema cura. Ora sentiamo Lenz:

«Egli non sapeva apprezzare Weber; parlava d'opera, inadatta al pianoforte (unklaviermässig)! In generale, Chopin era piuttosto distante dallo spirito tedesco in musica, benché lo sentii dire spesso: “C'è solo una scuola, la tedesca”.»(as)

Gutmann mi disse che, quando nel 1836 o 1837 portò con sé dalla Germania la Sonata in la bemolle maggiore, allora Chopin non la conosceva. È abbastanza difficile credere che Liszt nel 1828 chiedesse a Lenz se il compositore del Freischütz avesse scritto per il pianoforte, ma l'ignoranza di Chopin nel 1836 è molto più sorprendete. La fama e le pubblicazioni viaggiavano così lentamente nella prima metà del secolo? Un genio doveva aspettare così tanto per un riconoscimento? Se l'affermazione di Gutmann, della cui veridicità egli solo è responsabile, riposa sui fatti e non su un falso ricordo, quest'opera di Weber, oltremodo caratteristica ed una delle più importanti creazioni della letteratura pianistica, rimase ignorata da Chopin, uno dei primi pianisti d'Europa, fino a vent'anni dopo la sua pubblicazione, che avvenne nel dicembre del 1816.(at)
Che Chopin avesse un'alta opinione di Beethoven, lo si può desumere da quanto Lenz riferisce in un articolo scritto per la Berliner Musikzeitung (Vol. XXVI). Il piccolo Filtsch – il giovane ungherese pieno di talento, che fece dire a Liszt: “Chiuderò bottega quando costui comincerà a viaggiare –, dopo aver suonato di fronte ad un scelto gruppo di persone invitate dal suo maestro il Concerto in mi minore di quest'ultimo, Chopin ne rimase talmente compiaciuto che lo condusse al negozio di Schlesinger, chiese la partitura del Fidelio e gliela offrì dicendo: “Sono in debito con te: oggi mi hai dato una grande gioia. Ho scritto il concerto in tempi felici: accetta, mio caro giovane amico, l'opera del grande maestro! Lèggila per tutta la vita e ricordati di me qualche volta”. Tuttavia, quest'alta opinione di Beethoven non era né illimitata né incondizionata. Il suo atteggiamento nei confronti di questo musicista, cui Franchomme accennò brevemente con l'affermare che il suo amico, pur amando Beethoven, non ne gradiva alcuni aspetti, è spiegato più compiutamente da Liszt.

«Quale che fosse l'ammirazione ch'egli avesse per le opere di Beethoven, alcune parti gli parevano troppo rudi. La loro struttura era troppo atletica per piacergli; i loro moti di collera gli sembravano troppo ruggenti (leurs courroux lui semblaient trop rugissants). Trovava che la passione s'avvicinasse troppo al cataclisma; l'essenza leonina che si ritrova in ogni membro delle sue frasi, era per lui troppo materiale, ed i violenti contrasti tra gli accenti serafici, i profili raffaelleschi, che appaiono nel bel mezzo delle potenti creazioni di questo genio, lo facevano a volte soffrire.»(au)

Posso corredare questa quanto mai perfetta descrizione generale con alcuni esempi. Chopin asseriva che Beethoven un momento lo elevava fino al cielo, il momento dopo lo precipitava sulla terra, anzi nel fango. Tale caduta, Chopin la provava ogni volta che sentiva l'inizio dell'ultimo movimento della Sinfonia in do minore. Gutmann, che mi riferì questo fatto, aggiunse che brani come il primo movimento della Sonata Al chiaro di luna (do diesis minore) erano molto apprezzati dal suo maestro. Un giorno, quando Hallé gli suonò una delle tre Sonate op. 31 (non sono sicuro quale fosse), Chopin osservò che in precedenza l'ultimo movimento gli era sembrato volgare; di qui, la naturale conclusione di Hallé, che cioè Chopin non avesse studiato compiutamente le opere di Beethoven.(av) Tale congettura è confermata da quello che apprendiamo da Lenz, il quale nel 1842 ebbe modo di notare molte cose di Chopin e, grazie alla sua curiosità, insistenza, e sfrontatezza boswelliane, venne a conoscenza di numerosi fatti interessanti. Lenz e Chopin parlarono parecchio di Beethoven dopo la visita alle gentildonne russe più sopra menzionate; prima, non era mai accaduto. Lenz dice di Chopin:

«Non aveva un vero interesse per Beethoven; conosceva solo le composizioni più importanti; le ultime le ignorava del tutto. A Parigi tirava quest'aria! Si conoscevano le sinfonie, i quartetti, ma poco, del periodo di mezzo; gli ultimi, per niente.»(aw)

Quando Chopin sentì affermare da Lenz che Beethoven nel Quartetto in fa minore aveva anticipato Mendelssohn, Schumann e Chopin stesso, e che lo Scherzo apriva la strada alle sue mazurche-fantasia, disse: “Mi porti questo quartetto, non lo conosco”. Secondo Mikuli, Chopin frequentava regolarmente i concerti della Société des Concerts du Conservatoire e le esibizioni del quartetto Alard, Franchomme, ecc., anche se uno dei più reputati musicisti che vive a Parigi e che conosceva l'opinione di Chopin riguardo a Beethoven, insinua che la musica non fosse per lui la maggior attrazione dei concerti del Conservatoire, e che, al pari della maggior parte di quelli che vi si recavano, li considerasse come un ritrovo alla moda. Vero o no, il sospetto è innegabilmente significativo. “E Mendelssohn? – dirà il lettore – Chopin deve avere sicuramente ammirato ed avuto in simpatia questo musicista così espressivo e ligio alla forma!” Nulla, invece, potrebbe essere più lontano dal vero. Chopin odiava il Trio di Mendelssohn in re minore e ad Hallé disse che quel compositore non aveva mai scritto niente di meglio della prima Romanza senza parole. Franchomme, esprimendosi in modo più moderato, dice che Chopin non s'interessava molto alla musica di Mendelssohn. Gutmann, dal canto suo, dichiarò in modo risoluto che il suo maestro non la gradiva e che la giudicava ordinaria. Questa parola e la menzione del Trio mi ricordano un passo di Mendelssohn: Lettere e Ricordi di Hiller, in cui l'autore riferisce di quanto, allorché l'amico gli suonò il Trio in re minore appena completato, ne rimanesse favorevolmente impressionato per il vigore, lo spirito e la scorrevolezza, in una parola per il tratto magistrale dell'opera, aggiungendo però che alcuni passaggi pianistici lo avevano lasciato perplesso, in particolare quelli basati su accordi spezzati, perché, abituato com'era, per la costante frequentazione di Liszt e Chopin durante la sua pluriennale permanenza a Parigi, all'elaborata ricchezza della nuova scuola, gli sembravano vecchio-stile.(ax) Mendelssohn, il quale allude ripetutamente nelle sue lettere alla poca o nulla sintonia con la nuova tecnica pianistica, si lasciò persuadere da Hiller a riscrivere la parte pianistica, e rimase sodisfatto del risultato. Da quanto sopra è chiaro che, se Mendelssohn mancò di riconoscere a Chopin il suo giusto valore, Chopin andò oltre l'applicazione dello jus talionis.
Schumann, poi, trovò ancor meno favore di Mendelssohn agli occhi di Chopin; infatti, tra le opere che, per esempio, Mme Dubois, la quale fu allieva di Chopin per cinque anni, studiò con il suo maestro, Mendelssohn era rappresentato almeno dalle Romanze senza parole e dal Concerto in sol minore, mentre Schumann brillava per la sua totale assenza. E si badi che questo accadeva negli ultimi anni della vita di Chopin, quando Schumann aveva composto e pubblicato quasi tutte le sue opere più importanti per pianoforte solo e molte delle sue più belle composizioni per pianoforte con altri strumenti. G. Mathias, allievo di Chopin tra il 1839 e il 1844, mi scrisse: «Mi pare di ricordare che non avesse una grande opinione di Schumann. Ricordo di aver visto il Carnaval, op. 9, sulla sua scrivania, ma non ne parlava molto bene». Nel 1838, prima che Stephen Heller partisse da Augsburg per Parigi, Schumann gli rimise una copia del Carnaval (pubblicato nel settembre del 1837) da presentare a Chopin; questa copia aveva il frontespizio stampato in diversi colori ed era rilegata in modo raffinato, dacché Schumann conosceva l'amore di Chopin per l'eleganza e desiderava compiacergli. Poco dopo il suo arrivo a Parigi, Stephen Heller fece visita al musicista polacco, trovandolo in posa per un ritratto. Ebbene, nel ricevere la copia del Carnaval Chopin disse: “Come fanno bene queste cose in Germania!”, ma della musica non disse una parola. Ma vedremo tra poco quale fosse la sua opinione in proposito. Qualche tempo o, forse, qualche anno dopo questo primo incontro di Heller con Chopin, Schlesinger chiese a Heller un consiglio sull'opportunità di pubblicare il Carnaval di Schumann. Heller rispose che sarebbe stata una buona speculazione, perché, anche se l'opera agli inizi non avrebbe venduto molto, nel lungo periodo lo avrebbe ripagato; quindi, Schlesinger confidò a Heller quel che Chopin gli aveva detto, che cioè il Carnaval non era affatto musica. Il considerare una tale indifferenza, anzi più che indifferenza, di un grande artista per le creazioni di uno dei suoi più famosi contemporanei rattrista, soprattutto se ricordiamo quanto Schumann fosse devoto a Chopin, quanto lo ammirasse, lo amasse, lo sostenesse e lo idolatrasse. Se non fosse stato per l'entusiastico apprezzamento e la vigorosa difesa di Schumann, la fama di Chopin in Germania sarebbe cresciuta e si sarebbe diffusa più lentamente.(ay)
«Della produzione virtuosistica di ogni qualità […] non ho mai visto nulla sul suo leggìo, né credo l'abbia visto qualcun altro», dice Mikuli. Il che, per quanto vero in generale, è affermato troppo recisamente. Kalkbrenner, i cui “chiassosi virtuosismi (virtuosités tapageuses) ed i fronzoli decorativi (expressivités décoratives)” Chopin guardava con antipatia, e Thalberg, la cui eleganza e gli effetti superficiali egli sprezzava, erano senza dubbio banditi dal suo leggìo.(az) Tuttavia, non sembra che la stessa sorte toccasse anche a Liszt che a volta faceva la sua comparsa. Infatti, Mme Dubois studiò con Chopin la trascrizione lisztiana della Tarantella di Rossini ed il Settetto dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti. In ogni caso, le composizioni di Liszt che Chopin approvava, erano davvero poche. Chopin, che giudicava con profonda indignazione ogni concessione al cattivo gusto al costo della vera arte e per la ricerca del successo, spesso trovava il suo amico d'un tempo colpevole di un tale peccato. Nel 1840 venne pubblicato in un supplemento della “Gazette Musicale” la trascrizione di Liszt dell'Adelaide di Beethoven. Mathias, che capitò da Chopin il giorno stesso in cui questi ricevette il numero della rivista contenente il pezzo in questione, trovò il maestro furente, outré, a causa di alcune cadenze a suo giudizio fuori luogo e fuori contesto.
Abbiamo visto in uno dei precedenti capitoli quanto poco Chopin approvasse Berlioz sotto l'aspetto sia della sostanza sia della forma; alcuni antipodi degli ultraromantici non godevano di migliore considerazione. Quanto ad Halévy, Chopin non ne aveva una grande opinione. Per la musica di Meyerbeer provava una cordiale avversione e, benché non fosse insensibile all'esprit e alla vivacità francesi di Auber, non teneva in gran conto le opere di questo maestro. Invero, egli trovava l'opera italiana più di suo gusto che non le opere francesi. La musica di Bellini esercitava un fascino particolare su Chopin, che era anche un ammiratore di Rossini.
Quanto sopra esemplifica e mostra la verità dell'osservazione di Liszt:

«Nei grandi modelli e nei capolavori dell'arte egli cercava unicamente ciò che corrispondesse alla sua natura. Quel che vi si avvicinava, gli piaceva; quel che se ne allontanava, difficilmente otteneva da lui giustizia».(ba)

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[*] Le note numerate sono di Niecks; le note segnate dalle lettere dell'alfabeto sono nostre.
(a) Cf. W. von Lenz, Die grossen Pianoforte-Virtuosen unserer Zeit aus persönlicher Bekanntschaft. Liszt. – Chopin. – Tausig. – Henselt., Berlin (B. Behr's Buchhandlung) 1872, p. 36: «Jetzt spielte er nur einmal jährlich, halb öffentlich, in einem gewählten Zirkel seiner Schüler und Anhänger, unter der Blüthe der höchsten Gesellschaft, die im Voraus die Billette nahm, und unter sich vertheilte, wie er mir erzählte (Ora suonava solo una volta all'anno, quasi in pubblico, per una scelta cerchia di allievi e sostenitori, tra il fior fiore dell'alta società, che acquistavano i biglietti in anticipo e se li spartivano tra loro, come egli ebbe a riferirmi)».
(b) Alla recensione di Liszt dedicheremo un articolo.
(1) Dopo avere scritto quanto sopra, Legouvé ha pubblicato i suoi Soixante ans de Souvenirs, in cui dà la sua versione dell'accaduto, la quale dobbiamo sperare sia meno scorretta di altre affermazioni relative a Chopin: «Chopin mi aveva chiesto di scrivere un resoconto del concerto. Liszt, però, ne rivendicò l'onore. Mi affrettai pertanto a dare la buona notizia a Chopin, il quale senza scomporsi mi disse: “Avrei preferito che foste voi”. “Ma che cosa andate pensando, mio caro amico! Un articolo di Liszt è una fortuna per il pubblico e per voi. Fidatevi della sua ammirazione per il vostro talento. Vi assicuro qu'il vous fera un beau royaume. ”. “ Oui, mi disse sorridendo, dans son empire! ”».
[c] Nella n. 1, qui sopra, Niecks scrive: «… la quale [versione] dobbiamo sperare sia meno scorretta di altre affermazioni relative a Chopin», ma non giustifica in alcun modo una tale sibillina osservazione. La sua partigianeria verso Liszt ai danni di Chopin serpeggia per tutto il capitolo.
[d] Il lettore troverà il testo completo della recensione, cliccando sul seguente link: Recensione di F. Liszt al Concerto di Chopin del 26 aprile 1841.
[2] Adam Mickiewicz.
[e] Il lettore troverà il testo completo della recensione, cliccando sul seguente link: Recensione di Léon Escudier al Concerto di Chopin del 26 aprile 1841.
[f] Non è chiaro che cosa Niecks abbia voluto tradurre, perché l'originale è diverso: «Chopin è pianista per convinzione (Chopin est un pianiste de conviction)».
[g] Il lettore troverà il testo completo della recensione, cliccando sul seguente link: Recensione al Concerto di Chopin del 26 aprile 1841, pubblicata da "Le Ménestrel".
[h] Abbiamo scovato un'altra recensione, che Niecks non cita. L'anonimo autore (“C.V.”), che prende spunti dalle recensioni della "France Musicale" e del "Ménestrel", ostenta d'aver presenziato all'evento. Il lettore troverà il testo completo di questa fin qui ignota recensione, cliccando sul seguente link: Un'altra recensione al Concerto di Chopin del 26 aprile 1841.
[i] In realtà Chopin diede nel frattempo un altro concerto. Il 1° dicembre 1841, infatti, fu il solo strumentista in uno dei concerti offerti dal duca d'Orléans ai suoi ospiti che in quell'occasione furono 150 (non 500, come scrive l'Atwood, nel suo bel libro, cf. W. G. Atwood, Fryderyk Chopin Pianist from Warsaw, New York [Columbia University Press] 1987, p. 136: probabilmente un errore di traduzione). Ben inteso, non fu un concerto pubblico, ma gli ospiti non erano stati scelti fra gli amici e gli allievi di Chopin; in ogni caso, secondo il redattore del trafiletto pubblicato da "La France Musicale" Chopin si produsse en public. Il compositore vi eseguì la terza ballata e, com'era già accaduto in precedenza, una serie di improvvisazioni. Il lettore troverà i tre brevi resoconti, cliccando sul seguente link: Notizie sulla partecipazione di Chopin al Concerto reale del 1° dicembre 1841.
[j] Il lettore troverà il testo completo della recensione, cliccando sul seguente link: Recensione di Maurice Bourges al Concerto di Chopin del 21 febbraio 1842.
[k] Il lettore troverà il testo completo della recensione, cliccando sul seguente link: Recensione di Léon Escudier al Concerto di Chopin del 21 febbraio 1842.
[l] Questo insulso e prolisso articolo qui citato vuol essere un panegirico di Liszt, glorieuse pyramide de ce triangle de talents. Il Niecks traduce lo stralcio letteralmente, che però risulta oscuro sia in inglese sia in italiano. L'articolista vuole significare che, a dispetto dei pregi e dell'unicità, il risultato immediato della prestazione pianistica di Chopin, l'effetto esteriore manca di magnetismo, cioè non eccita il pubblico. In ogni caso, l'articolo non è del 1835: il Niecks ricorda male. Questa volta lasceremo agli pseudo-chopinologi che scrivono libri utilizzando ricerche altrui senza citarle, il piacere – se vogliono – di trovare la data esatta.
[m] Cf. A. Marmontel, Les pianistes célèbres, Paris (A. Chaix et Cie) 1878, p. 4.
[3] Marmontel, Les Pianistes célèbres.
[n] Ibid., pp. 4-5.
[o] Cf. F. Liszt, F. Chopin, Leipsic (Breitkopf et Haerte) 21879, p. 113. Niecks cita dalla seconda edizione (nouvelle édition), che fu il risultato della disinvolta rimanipolazione operata a suo capriccio dalla verbosissima principessa Wittgenstein, col consenso di Liszt ovviamente. Nella traduzione non abbiamo seguito il testo di Niecks, peraltro piuttosto fedele all'originale, bensì la redazione francese, di cui tuttavia è quasi impossibile rendere la stucchevole prolissità.
[4] Si allude ai racconti di Charles Nodier. Secondo Sainte-Beuve, La Fée aux Miettes era una di quelle storie in cui l'autore fu influenzato dalle creazioni di Hoffmann.
[p] Anche qui il Niecks cita dalla seconda edizione del volume lisztiano. Nella prima il testo è concettualmente diverso: «Chopin savait que son talent, dont le style et l'imagination nous rappelaient ceux de Nodier, par la pureté [...]; Chopin savait, disons-nous, qu'il n'agissait pas sur la multitude et ne pouvait frapper les masses, car pareils à une mer de plomb, leurs flots malléables à tous les feux, n'en sont pas moins lourds à remuer, et nécessitent le bras puissant de l'ouvrier athlète pour être versés dans un moule, où le métal en fusion devient tout d'un coup pensée et sentiment, sous la forme qu'on lui impose.»
[q] Cf. H. Heine, De tout un peu, Paris (Calman Lévy, Éditeur) 1890, p. 307s.
[r] Rispetto alla prima edizione tutto quello che va da commossa a incantare, è frutto dell'irrefrenabile verbosità della principessa Wittgenstein. In ogni caso, pur nell'ampollosità miasmatica del periodo, la parola morbidezza – in italiano anche nell'originale – conferma unitamente al contesto, non senza uno scrupolosissimo setaccio, che per Chopin – proprio come per i grandi cantanti dell'epoca del Belcanto – il rubato equivale al respiro. Tratteremo la questione in dettaglio in altra pagina.
[s] In effetti, nella sintetica autobiografia, Quantz racconta che nel 1719 ebbe occasione di sentire per la prima volta nella sua vita due opere italiane (Dieses war nun die ersten Opern, die ich in meinem Leben gehöret hatte). Quindi passa in rassegna i cantanti, dandone un suo giudizio. Di Santa Stella (Lotti era il cognome del marito, che dirigeva l'orchestra) scrive: «La Lotti aveva una voce da soprano piena e potente, buona intonazione ed un buon trillo. Le note acute le costavano un po' di fatica. Gli Adagio erano il suo forte. Il cosiddetto Tempo rubato l'ho sentito per la prima volta da lei. Sul palcoscenico faceva una bella figura, ed i suoi gesti, soprattutto nei personaggi d'alto rango, erano irreprensibili (Die Lotti hatte eine völlige starcke Sopranstimme, gute Intonation, und guten Trillo. Die hohen Töne machten ihr einige Mühe. Das Adagio was ihre Stärcke. Das sogenannte Tempo rubato habe ich von ihr zum erstenmale gehöret. Sie machte auf der Schaubühne eine sehr gute Figur, und ihre Action war besonders in erhabener Charakteren unverbesserlich)» (cf. J. J. Quantz, Herrn Johann Joachim Quantzens Lebenslauf, von ihm selbst entworfen, in „Historisch-kritische Beyträge zur Aufnahme der Musik“, I.3 [1755], p. 212ss.). Ora, siccome la compagnia di canto annoverava persino Francesco Bernardi, detto il Senesino, uno dei più celebri castrati dell'epoca, vien da chiedersi che cosa Quantz intendesse con Tempo rubato, poiché è da escludere nella maniera più assoluta che gli altri cantanti italiani della compagnia non ne facessero uso, dacché non vi è belcanto senza rubato. In ogni caso, sull'origine del rubato, vi è un solo scritto che tratti in modo competente l'argomento, cf. G. Belotti, Le origini italiane del “rubato” chopiniano, ripubblicato in Saggi sull'arte e sull'opera di F. Chopin, Bologna 1977, pp. 41÷75.
[t] Cf. W. von Lenz, Die grossen Pianoforte-Virtuosen unserer Zeit aus persönlicher Bekanntschaft, Berlin (B. Behr's Buchhandlung) 1872, p. 47.
[u] Il testo della recensione è riproposto in “The Musical Times” 23 (1882) p. 315s., da cui si rileva che il Niecks omette senso del.
[v] Il lettore troverà il racconto dell'episodio fatta dallo stesso Hallé, cliccando sul seguente link: Kalkbrenner, Chopin, Liszt e Thalberg.
[w] A partire dal Niecks, queste affermazioni di Berlioz vengono sempre citate fuori del loro contesto, sì da privarle del loro reale significato: «Si è paragonato Ernst a Chopin. Sotto certi aspetti il paragone può calzare; sotto molti altri, ben più importanti, non calza per niente. Considerati dal lato puramente musicale questi due artisti differiscono profondamente. Chopin mal sopportava le briglie del tempo: egli ha spinto davvero troppo oltre, secondo me, l'indipendenza ritmica. Ernst, pur prendendosi le libertà che l'arte ragionevolmente consente e che l'espressione appassionata spesso richiede, resta un musicista regolare, cadenzato e, pur fra i capricci più arditi, d'una fermezza agogica imperturbabile. Chopin non poteva suonare in modo regolare; Ernst, se vuole, può abbandonare per un istante la regolarità, per meglio farne sentire la potenza quando vi rientra. Occorre sentirlo nei quartetti di Beethoven per apprezzarlo sotto questo rapporto [...]», cf. H. Berlioz, Mémoires, II, Paris (Calmann-Lévy, Éditerus, post 1865, p. 295s.
[x] Nella sua autobiografia Hallé non fa alcun cenno all'esagerazione di cui parla il Niecks.
[y] Cf. W. von Lenz, op. cit., p. 47. Come altrove, anche qui la traduzione italiana pubblicata da Sellerio è lacunosa ed imprecisa.
[z] Ibid. p. 39. Forse Lenz non s'avvede che “purezza di stile” e “femmineo” sono in contraddizione.
[aa] Ibid. p. 30.
[ab] “Stizzito” è un'arbitraria ed incomprensibile invenzione del Niecks, poiché Lenz precisa proprio il contrario: «… senza alcuna suscettibilità (ohne alle Empfindlichkeit)»!, cf. ibid. p. 39.
[ac] Perché Niecks voglia attribuire al racconto di Lenz una tensione che non ha, ci sfugge o quasi... È vero, Lenz non è certo innocente, ma il suo scopo è un altro, e ne parleremo in altra sede.
[ad] Invero Liszt non ha mai scritto queste parole, né nella prima, né nella seconda edizione del suo Chopin. Probabilmente Niecks ha confuso gli appunti.
[ae] Questa parte della citazione è invece tratta, non già dalla seconda edizione, bensì dalla prima. Nella seconda edizione, peraltro, la Wittgenstein si limitò semplicemente a rimaneggiare il periodo, senza aggiungere nulla. Quanto al “velata”, cf. in questo sito la n. 9 all'articolo In margine al XVI Concorso Internazionale F. Chopin di Varsavia. Aggiungiamo qui che anche Marmontel definisce la sonorità dei Pleyel voilée, ma non in combinazione con argentine, come fa Liszt, bensì con discrète, formulando un pensiero assolutamente antitetico a quello di Liszt. Cf. A. Marmontel, Histoire du piano, Paris (Heugel & Fils) 1885, pp. 248, 256, 356.
[af] Il Niecks trae la citazione da H. Blaze de Bury, Musiciens contemporains, Paris (Michel Lévy Frères) 1856, p. 118; tuttavia il lettore troverà una più precisa esposizione del concetto espresso da Chopin in A. Marmontel, op. cit., p. 256.
[ag] Il testo pubblicato nella Korespondencja è un po' diverso: «Erard s'est montré très empressé et a mis un de ses pianos à ma disposition. J'ai donc un instrument de Broadwood, un autre de Pleyel – en tout trois pianos, mais à quoi cela me sert-il puisque je n'ai pas le temps de jouer (Erard si è mostrato molto sollecito ed ha messo uno dei suoi piani a mia disposizione. Ho dunque uno strumento di Broadwood, un altro di Pleyel: in tutto tre piani; ma questo a che cosa mi serve, dal momento che non ho il tempo di suonare)».
[ah] Cf. p. 194 della seconda edizione.
[ai] Ibid. p. 196.
[aj] Ibid. p. 196.
[ak] Ibid. p. 196s.
[al] Un esempio degli interventi al testo di Bach è ora dato da J.S. Bach, Vingt-quatre Préludes et Fugues (Le Clavier bien tempéré, Livre I) Annoté par Frédéric Chopin, comm. de J.-J. Eigeldinger, Paris (Société française de Musicologie) 2010.
[am] W. von Lenz, op. cit., p. 36.
[an] Cf. F. Liszt, op. cit., p. 196: «Hummel, parmi les compositeurs de piano, était un des auteurs qu'il relisait avec le plus de plaisir».
[ao] Ibid. p. 191: «Les nocturnes de Field, les sonates de Dussek, les virtuosités tapageuses et les expressivités décoratives de Kalkbrenner, lui étant ou insuffisants ou antipathiques, il prétendait n'être pas attaché aux rivages fleuris et un peu mignards des uns, ni obligé de trouver bonnes les manières échevelées des autres». Qui si ha la prova dei rimaneggiamenti disinvolti della Wittgenstein; infatti, nella prima edizione i giudizi relativi a Mozart e a Hummel erano nel capitolo “Jeunesse de Chopin”, ove però manca ogni accenno a Field, Dussek e Kalkbrenner. È verisimile che delle conversazioni con Liszt la Wittgenstein, preparando la seconda edizione, rimescolasse informazioni e nomi a suo piacimento: la nota relativa ai Notturni di Field, imbarazzante per Niecks, smette di esserlo se la si attribuisce alla sua autrice.
[ap] Cf. A. Marmontel, Les pianistes célèbres, Paris (A. Chaix et Cie) 1878, p. 11s.
[aq] Cf. op.cit., p. 194.
[ar] Ibid. p. 196.
[as] Cf. W. von Lenz, op.cit., p. 41.
[at] Niecks sembra scandalizzato. Ma che vi è di strano? Come ben sa anche il Niecks, all'epoca erano solo due i modi per conoscere musica nuova: averne a disposizione la partitura o sentirla eseguita. In Polonia Chopin può non aver avuto nessuna delle due opportunità, e a Parigi amministrò il suo tempo secondo i suoi bisogni. Noi avremmo fatto lo stesso!
[au] Cf. op.cit., p. 193s.
[av] Si veda, in questo sito, quanto lo stesso Hallé riferisce.
[aw] Cf. W. von Lenz, op.cit., p. 40.
[ax] Cf. F. Hiller, Letters and Recollections, translated, with the consent and revision of the author, by M.E. von Glehn, London (Macmillan and Co.) 1874, p. 154s.
[ay] Le affermazioni di Niecks sono davvero sorprendenti: in sostanza egli sostiene che le cortesie ricevute devono essere ricambiate, se necessario, con la menzogna, cioè Chopin doveva elogiare in ogni caso e senza riserve le musiche del suo collega. È questo un principio di solidarietà mafiosa che d'un sol colpo scredita tutti i giudizi del Niecks. Quanto all'atteggiamento di Schumann verso Chopin, il Niecks dice scientemente il falso: a parte l'iniziale e famosa scappellata – di cui Schumann onorò anche altri con le stesse parole – le fatue recensioni del Tedesco mostrano un progressivo cambio di direzione, cf. lo studio anche troppo cauto di L. Bronarski, Les jugements de Schumann sur les œuvres de Chopin, in Etudes sur Chopin, II, Lausanne (Éditions La Concorde) 1946, pp. 71÷140.
[az] V. qui sopra n. ao.
[ba] Cf. op.cit. p. 193).

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