Charles Hallé


Kalkbrenner, Chopin, Liszt e Thalberg
[da Life and Letters of Sir Charles Hallé, being an Autobiography (1819-1860) with Correspondence and Diaries,
edited by His Son, C. E. Hallé, and His Daughter, Marie Hallé, London (Smith , Elder, & Co.) 1896, pp. 30÷40, 86÷90, 212÷215, 224÷225.]




[NOTA DEL TRADUTTORE.I ricordi di Charles Hallé (11 aprile 1819-†25 ottobre 1895) costituiscono una delle testimonianze più importanti su Chopin pianista, poiché l'autore, pianista anch'egli, mostra, al di là di alcune incongruenze sulle date, un grado di obiettività rimarchevole (si noti il simpatico preambolo sul suo insegnante di francese). Il confronto dei quattro pianisti, in virtù della competenza di Hallé, dei suoi rapporti con i protagonisti e dell'assenza di ogni traccia di una qualsiasi forma di faziosità o animosità, permette al lettore competente e attento di farsi un'idea piuttosto precisa delle due antipodiche concezioni pianistiche: quella di Chopin e quella di Liszt. Torneremo in altra pagina su quest'argomento.]


È con sincero rincrescimento che nell'autunno del 1836 lasciai Darmstadt[1] ed il mio caro vecchio maestro. Feci il viaggio in diligenza via Metz e Chalons, dormendo ad ogni sosta per ordine del dottore, poiché non ero molto robusto, ed a quei tempi un tale viaggio era una bella impresa. Mi attendeva una grande delusione, dopo che, attraversata la frontiera francese, mi trovai all'interno dell'enorme diligenza con quattro signori francesi. A scuola, in francese andavo bene: leggevo e anche parlavo la lingua con una certa scioltezza; di qui, grande fu il mio disappunto, quando mi resi conto di non capire una parola della conversazione dei miei compagni di viaggio, nonostante ponessi tutta la mia attenzione, e così giunsi a Parigi davvero mortificato. Fu necessario parecchio tempo prima che il mio orecchio si abituasse a quei suoni non familiari; però, quel che avevo studiato si rivelò poi di grande utilità. Vorrei aggiungere che quando, due anni più tardi, tornai a Hagen ed incontrai il mio vecchio insegnante di francese, questi mi si rivolse con gioia in quella che credeva fosse quella lingua, ma io non lo capivo più, ed egli mi lasciò nella piena convinzione che avessi dimenticato tutto ciò che mi aveva insegnato.

Arrivato a Parigi[2] e sistematomi in un piccolo albergo tedesco in rue Vivienne, cominciai dopo pochi giorni a recapitare le lettere di raccomandazione che avevo con me: una delle prime visite fu a Kalkbrenner.[3] A quel tempo Kalkbrenner e Hummel erano considerati i più grandi pianisti; persino Chopin era venuto a Parigi pochi anni prima per prendere lezioni da Kalkbrenner.[4] Perciò mi rivolsi a lui con considerevole trepidazione, e rimasi stupito quando mi disse che non prendeva più allievi; tuttavia, mi invitò cortesemente a suonare qualcosa, che ascoltò con molta attenzione; quindi, fece alcune sgradevoli osservazioni[5] e, poi, mi consigliò di prendere lezioni da uno dei suoi allievi. Era quasi il momento di andarmene, quando egli si offerse di suonare per me, asserendo che mi sarebbe stato utile ascoltarlo. Accettai con entusiasmo, aspettandomi grandi cose, quindi si sedette e suonò un nuovo pezzo di sua composizione intitolato Le Fou, uno dei più modesti e noiosi pezzi mai concepiti. Ammirai l'eleganza, la pulizia delle sue scale ed il suo legato, ma, a parte questo, non fui colpito dalla sua esecuzione, perché mi aspettavo di più; inoltre, mi avevano stupito alcune note false che non mi erano sfuggite.

Riguardo all'insegnante che mi aveva raccomandato, non seguii subito il suo consiglio.[6] Dopo due o tre giorni ricevetti un invito a cena dal banchiere Mallet, al quale un mio zio, Harkort di Lipsia, mi aveva raccomandato, e mi trovai seduto a fianco di Chopin, e quella stessa sera[7] lo sentii suonare: ne fui affascinato oltre ogni dire. Mi pareva d'essere entrato in un altro mondo ed ogni pensiero riguardante Kalkbrenner fu scacciato dalla mia mente. Me ne stavo seduto, incantato, completamente stupefatto: se la sala si fosse improvvisamente popolata di spiriti fatati, non me ne sarei stupito. Il meraviglioso incanto, la poesia e l'originalità, la perfetta libertà e l'assoluta chiarezza del modo di suonare di Chopin a quel tempo non possono essere descritti. Era la perfezione in ogni senso. Sembrava compiaciuto della palese impressione che aveva prodotto – in effetti, riuscii solo a biascicare poche parole di ammirazione –, ed egli continuò a suonare, disvelando ogni volta nuove bellezze, fino al punto che avrei potuto cadere in ginocchio per adorarlo. Tornai a casa in uno stato di completo smarrimento, e fu solo il giorno dopo che cominciai a capacitarmi di quel che avevo avuto di fronte: quanto studio e quanto lavoro, per raggiungere quel dominio tecnico sulla tastiera, senza il quale da quel momento sapevo che non si sarebbe potuto ottenere alcun risultato apprezzabile. Strano a dirsi, ma allora l'idea di prendere lezioni da Chopin non m'era venuta in mente; sentivo che quel che dovevo fare, potevo farlo senza insegnante; lezioni d'interpretazione sarebbero state più utili in un secondo tempo. Quindi m'imposi di esercitarmi dodici ore e più quotidianamente, finché un giorno la mia mano sinistra non si gonfiò fino al doppio della sua grandezza naturale, procurandomi una notevole apprensione. Per alcuni mesi uscii di casa raramente, e solo quando ricevevo inviti da ospiti nelle cui case sapevo che avrei potuto incontrare, e forse sentire, Chopin. Non erano molti a Parigi, perché Chopin, impedito da una crescente debolezza, cominciava già allora a condurre una vita molto ritirata. Egli era ancora solito frequentare soprattutto il conte de Perthuis, il banchiere August Leo, Mallet, e pochi altri. Siccome per mia fortuna ero stato presentato alle tre persone sopra citate tramite lettere di raccomandazione, ebbi il privilegio d'essere invitato alle loro ' réunions intimes ', proprio quando Chopin, che evitava le serate con troppa gente, era presente. Con la familiarità crebbe la mia ammirazione, poiché imparai ad apprezzare quel che prima mi aveva solo abbagliato. Anche il suo aspetto esteriore era particolare: colpivano i lineamenti ben definiti, il colorito diafano, i bei capelli ondulati color castano, la fragile struttura, il portamento aristocratico e i modi principeschi, che lo rendevano unico e davano la sensazione d'essere in presenza d'un uomo superiore. Incontrandoci spesso, divenimmo più intimi e, benché allora non avessi mai mostrato quanto poco valessi come pianista, egli sapeva che ero uno studente appassionato ed intuì che non solo lo ammiravo, bensì che lo capivo. Col tempo la nostra conoscenza si trasformò in vera amicizia, e sono felice di poter affermare ch'essa durò intatta fino alla fine della sua troppo breve vita.

Dal 1836 al 1848, periodo durante il quale egli creò molte delle sue opere più notevoli, ebbi la fortuna di sentirle suonare da lui man mano che venivano pubblicate, ed ognuna sembrava una nuova rivelazione. Ora che la musica di Chopin è diventata patrimonio di ogni studentessa di musica e che il suo nome ben difficilmente non appare in un programma di concerto, è impossibile capacitarsi dell'impressione che queste opere producevano sui musicisti quando venivano pubblicate e, soprattutto, quand'erano suonate da lui stesso. In tutta franchezza posso asserire che nessuno è mai stato capace di riprodurle così come risuonavano sotto le sue magiche dita. Nell'ascoltarlo si perdeva ogni capacità d'analisi; non si pensava nemmeno per un attimo se l'esecuzione di questa o quella difficoltà fosse perfetta o meno; ascoltavi, per così dire, l'improvvisazione di un poesia e restavi sotto l'influsso di quell'incanto fintantoché durava. Un tratto notevole del suo modo di suonare era la totale libertà con cui trattava il ritmo; eppure appariva così naturale che per anni non mi aveva mai urtato. Una volta, dev'essere stato nel 1845 o 1846, mi azzardai a fargli osservare che la maggior parte delle sue mazurche (quei raffinati gioielli), suonate da lui, sembravano scritte non in 3/4, ma in 4/4, dal momento che indugiava maggiormente sulla prima nota della battuta. Lo negò con decisione, finché non gliene feci suonare una; mentre suonava, contavo ad alta voce fino a quattro per ogni battuta: concordava perfettamente. A quel punto si mise a ridere e spiegò che era il carattere nazionale della danza a creare quella singolarità. Ma il fatto più notevole era che, mentre si ascoltava un tempo in quattro quarti, si aveva l'impressione di un ritmo di 3/4.[8] Ovviamente, questo non valeva per tutte le mazurche, ma per molte sì. Mi resi conto più tardi di quanto fossi stato incauto nel fargli quell'osservazione e di quanto fosse stato ben disposto nei miei confronti per averla presa con tanto buon umore; infatti, un'osservazione simile fattagli in un'altra circostanza da Meyerbeer, forse con modi un po' supponenti, sfociò in una seria disputa, che Chopin, credo, non gli perdonò mai. Qualunque intenzionale ed erronea interpretazione delle sue opere lo irritava fortemente. Ricordo che una volta con i suoi modi gentili mi pose una mano sulla spalla e mi confessò quanto fosse infelice, perché aveva sentito la sua 'Grande Polonaise', in la bemolle maggiore, jouée vite !, con il risultato che tutta la grandezza e la maestosità di questa nobile ispirazione andavano perdute. Il povero Chopin si rivolterà ora nella tomba, dacché questo brutto vezzo è diventato purtroppo di moda.
Vorrei parlare ancora un poco di Chopin e riprendere il mio racconto più in là, anche perché non richiederà molto spazio. Le sue apparizioni pubbliche furono poche e distanziate l'una dall'altra: erano concerti dati nella Sala Pleyel, in cui presentava le sue composizioni più recenti. Il programma si apriva invariabilmente, penso, col Trio di Mozart in mi maggiore, la sola opera di un altro compositore che gli sentii suonare. Egli si identificava così pienamente con la sua propria musica che non capitava a nessuno di chiedere o anche solo di voler sapere come avrebbe suonato, per esempio, le sonate di Beethoven. Se gli fossero familiari resta un punto controverso. Un giorno, molto dopo ch'ero riapparso dal mio ritiro e quando avevo già acquisito una certa notorietà come pianista, su sua richiesta eseguii la Sonata in mi bemolle maggiore op. 30[9] n. 3; dopo il finale mi disse che era la prima volta che le era piaciuta e che gli era sempre apparsa molto rozza. Mi sentii lusingato, ma anche molto sconcertato dalla stranezza dell'osservazione. Per altri versi, non amava i Lieder ohne Worte di Mendelssohn ad eccezione del primo del primo libro che egli definiva un canto della più pura virginale bellezza. Se si pensa alla meravigliosa originalità del suo genio, all'impressionante differenza delle sue opere da ogni altra scritta prima di lui, senza fare confronti riguardo al loro rispettivo valore, vien naturale pensare ch'egli vivesse in un mondo tutto suo, e che ogni altra musica, anche quella più grande, non incontrasse le sue simpatie.

Quando lo conobbi la prima volta era ancora un compagno affascinante, allegro e pieno di vita; dopo pochi anni, però, le sue condizioni fisiche iniziarono a peggiorare; diveniva sempre più debole, a tal punto che, quando cenavamo insieme da Leo o nelle case di altri amici, doveva essere portato su di peso, anche solo al primo piano.[10] Tuttavia, il suo umore e la sua forza di volontà restavano inalterati: ne diede prova una sera quando, dopo aver scritto la Sonata per pianoforte e violoncello, invitò un piccolo gruppo di amici per farla ascoltare suonata da lui e da Franchomme. Al nostro arrivo lo trovammo in condizioni tali che non poteva quasi muoversi, curvo come un coltellino a lama mobile aperto a metà, e chiaramente sofferente. Lo pregammo di posporre l'esecuzione, ma egli non ne volle sapere; subito dopo si sedette al pianoforte e, nel pigliar fervore per la sua opera, gradualmente il corpo riprese la sua posizione normale: lo spirito aveva dominato la carne. Nonostante il declino della sua forza fisica l'incanto del suo modo di suonare rimaneva grande come sempre; alcune nuove letture interpretative che fu costretto ad adottare, si rivelarono di particolare interesse. Così, nell'ultimo concerto pubblico che diede a Parigi alla fine del 1847 o agli inizi del 1848,[11] suonò l'ultima parte della Barcarola, dal punto in cui si richiede la maggior energia possibile, in modo del tutto opposto, cioè pianissimo, ma con tali meravigliose nuances, da far dubitare se questa nuova lettura non fosse preferibile a quella abituale. Nessuno se non Chopin avrebbe potuto compiere una tale prodezza. Lo vidi per l'ultima volta in Inghilterra; vi era giunto poche settimane dopo il mio arrivo nel 1848, ed ebbi il privilegio e la gioia di sentirlo diverse volte dai Sartori e da Henry F. Chorley. L'ammirazione che suscitava non aveva limiti; lì ascoltai per la prima volta i bei valzer op. 64, da poco composti e pubblicati, che divennero da quel momento i più popolari dei suoi pezzi più brevi. In seguito ebbi il piacere di dargli il benvenuto a Manchester, dove suonò ad uno dei concerti della società denominata “The Gentlemen's Concerts”, nel mese di agosto. Fu allora penosamente chiaro che la sua fine si stava avvicinando. Un anno dopo non c'era più.

Tornando al 1836, devo riferire che pochi giorni dopo aver fatto la conoscenza di Chopin, sentii Liszt per la prima volta ad uno dei suoi concerti, da cui tornai a casa con un senso di completo avvilimento. Non avrei potuto immaginare un'abilità esecutiva ed una potenza così fantastiche. Era un gigante, e Rubinstein diceva il vero quando, all'epoca dei suoi maggiori trionfi, affermava che in confronto a Liszt tutti gli altri pianisti erano bambini. Chopin ti portava con lui in un mondo di sogni dove saresti voluto rimanere per sempre; Liszt era un sole luccicante d'uno splendore che abbagliava, capace di soggiogare gli ascoltatori con una potenza cui nessuno poteva resistere. Non vi erano per lui difficoltà esecutive; i passaggi più incredibili parevano un gioco da ragazzi sotto le due dita. Uno dei suoi straordinari meriti era la chiarezza cristallina che non cedeva un solo momento, neppure nei passaggi più complessi ed impossibili a qualsiasi altro; era come se li fotografasse nei più minuti dettagli nelle orecchie dell'ascoltatore. La potente sonorità che traeva dal suo strumento, non l'avevo mai sentita prima; eppure non era mai rozza, né faceva pensare ad uno che 'pesta'. La sua audacia era straordinaria quanto il suo talento. Ad un concerto con orchestra dato da lui e diretto da Berlioz, venne eseguita la 'Marcia al supplizio' dalla Symphonie Fantastique di quest'ultimo, un brano sontuosamente strumentato; ebbene, alla fine, Liszt si sedette al piano e suonò il suo proprio adattamento per pianoforte del medesimo movimento: l'effetto fu persino superiore a quello dell'intera orchestra, provocando un indescrivibile furore. L'impresa era stata debitamente annunciata in anticipo nel programma, prova del suo indomito coraggio.

Se di fronte alla sua meravigliosa capacità esecutiva ci si poteva solo inchinare in segno d'ammirazione, vi erano alcune particolarità stilistiche, o piuttosto di sensibilità musicale, che potevano non essere approvate. Ero molto giovane e quanto mai impressionabile, ma l'attacco del finale della Sonata in do diesis minore di Beethoven come pure le variazioni di quella in la bemolle, op. 26, mi urtavono a dispetto della perfezione con cui quei movimenti erano suonati. Un altro esempio: a quel tempo egli suonava volentieri in pubblico la sua trascrizione dello Scherzo, della 'Tempesta', e del Finale dalla Sinfonia pastorale di Beethoven: la 'Tempesta' era semplicemente magnifica e nessuna orchestra avrebbe potuto renderla in modo più efficace e reale. Ma la singolarità, la stranezza dell'esecuzione consisteva nel suonare le prime otto misure dello Scherzo ad un tempo più veloce di quello che normalmente si prende, e le successive otto misure, la frase in si maggiore, ad un tempo lento andante; “ ce sont les vieux ”, mi disse una volta. Al fine di caratterizzare il grado di conoscenza musicale della Parigi di quegli anni, può essere utile riferire che ad un concerto dato da Liszt nel 1837 nella Salle Erard, il Trio di Beethoven in si bemolle, che avrebbe dovuto aprire il programma, e quello di Mayseder in la bemolle, posto all'inizio della seconda parte, per un qualche motivo furono invertiti senza che la cosa fosse annunciata al pubblico. Ebbene, la conseguenza fu che il Trio di Mayseder, ritenuto quello di Beethoven, venne accolto con acclamazioni, mentre quello di Beethoven fu accolto con molta freddezza; persino i giornali elogiarono il primo e criticarono severamente la lunghezza e l'aridità del secondo. Di Liszt come uomo dirò qualcosa qua e là, quando sarò arrivato al tempo in cui la nostra conoscenza si fece più intima.[12]

Nello stesso anno nuove sensazioni me le diede Thalberg. Totalmente diverso nello stile sia da Chopin sia da Liszt, a modo suo era ammirevole e senza difetti. Le sue esecuzioni erano meravigliosamente rifinite ed accurate, dando l'impressione che gli fosse impossibile sporcare una nota. Il suo suono era rotondo e bello, la chiarezza dei passaggi cristallina, ed aveva portato alla massima perfezione il metodo, identificato col suo nome, di far risaltare la melodia dal groviglio dei passaggi virtuosistici. Non suscitava emozioni, se non quella di meraviglia, perché il suo modo di suonare era statuario; freddo, ma bello, e tanto magistrale che si diceva di lui, a ragione, che avrebbe suonato con la stessa cura e perfezione se fosse stato svegliato dal sonno più profondo nel cuore della notte. Fece grande sensazione a Parigi, e divenne l'idolo del pubblico, principalmente, forse, perché si sentiva che poteva essere imitato, persino con successo, cosa che con Chopin e Liszt era fuori questione.

[p. 86]
Il festival beethoveniano di Bonn,[13] […] cui Berlioz ed io andammo insieme da Parigi, attirò un gran numero di musicisti, fra i più eminenti, provenienti da ogni regione, tutti desiderosi di rendere omaggio alla memoria d'un incomparabile genio. Diede lustro all'avvenimento la presenza del re di Prussia e dei suoi ospiti, la regina Vittoria ed il Principe consorte, i quali assistettero, da un palco reale appositamente allestito nella piazza, allo scoprimento della statua che, con gran stupore della folla che l'attorniava, caduto il velo mostrò le terga alle loro Altezze reali.

Liszt fu l'eroe della festa, e giustamente, perché senza i suoi enormi sforzi essa non avrebbe mai avuto luogo. Era difficile avvicinarlo, tanta era la folla degli ammiratori che lo assediavano costantemente; ma le occasionali mezze ore ch'egli poté dedicare a Berlioz e a me furono rese memorabili dai lampi della sua eloquenza ed arguzia. Il suo eloquio era davvero sontuoso. Tuttavia, al primo concerto ci giocò un brutto tiro. Per l'apertura del programma aveva composto una cantata di considerevole lunghezza, priva d'interesse, com'era risultato evidente durante le prove, ma ch'eravamo rassegnati ad ascoltare pazientemente, e così facemmo. Era quasi finita e già ci stavamo preparando a godere della musica di Beethoven, quando le Altezze reali che erano state trattenute fino a quel momento, entrarono nel loro palco, e Liszt, lasciandoci sbigottiti, ricominciò l'intera cantata, infliggendola una seconda volta all'immenso pubblico che, per rispetto alle teste coronate, dovette sopportare non senza, probabilmente, lagnarsene nell'intimo. Una mattina, durante questa settimana di festeggiamenti, lo trovai da solo e, siccome la conversazione s'era spostata su fatti ed aneddoti per noi degni di nota accaduti tra il 1838 e il 1846,[14] improvvisamente esclamò: “ Ah l'heureux temps ! où l'on pouvait être si bête (Ah, che tempi felici, quand'eravamo tanto stupidi) ! ” Egli parlava con sentimento, e penso che si assolvesse[15] per il fatto che le cose che poteva dire e fare in quel periodo in cui era l'artista più osannato che vi fosse mai stato, sconfinavano davvero nel grottesco. Così, dopo i suoi grandiosi trionfi in Germania, soprattutto a Berlino, dove le signore s'erano battute per i suoi guanti, lo sentii dire ad uno dei suoi ricevimenti a Parigi, a proposito del re di Prussia: “ Le roi a été très convenable ! ” Essere diverso da tutti gli altri, non conoscere nulla delle convenzioni sociali o, piuttosto, mostrare di ignorarle, sembrava essere il suo unico scopo. Una volta, incontratolo per caso lungo il Boulevard, mi chiese di cenare con lui al Café de Paris: gustammo un semplice ma buon pasto. Quando il cameriere gli portò il conto che difficilmente poteva raggiungere i 30 franchi, mi chiese piuttosto seriamente, se secondo me 40 franchi per il cameriere sarebbero stati sufficienti. “ Je ne sais jamais ces choses (non so mai queste cose), ” disse, e senza batter ciglio avrebbe voluto dare al cameriere più di quanto era costata l'intera cena. Un giorno, andandolo a visitare, lo trovai impegnato col sarto, intento ad esaminare alcuni modelli di panciotto. “Ne ho almeno sessanta,” mi disse, “ma non ne trovo mai uno di mio gradimento quando lo voglio mettere.” “Che ne dici di questo,” mi chiese sul momento, ed al mio cenno di approvazione se ne venne fuori con: “ Voulez-vous que je vous en fasse faire un (volete che ve ne faccia fare uno) ? ”. Una gentile offerta che fu respinta ringraziandolo.

Una scena cui ho assistito, caratterizza un altro aspetto del suo comportamento a quel tempo. Il programma di uno dei suoi concerti dati nella Sala del Conservatorio comprendeva la Sonata “Kreutzer” eseguita da Liszt e da Massart, un violinista celebrato e molto stimato, professore al Conservatorio. Massart stava già iniziando la prima battuta dell'introduzione, quando una voce dal pubblico gridò: “ Robert le Diable ! ”. A quel tempo Liszt aveva composto una fantasia molto virtuosistica su temi tratti dall'opera, e la suonava sempre con immenso successo. Il grido fu ripreso da altre voci, ed in un attimo le grida “ Robert le Diable ! ” “ Robert le Diable ! ” coprirono i suoni del violino. Liszt si alzò, s'inchinò e disse: “ Je suis toujours l'humble serviteur du public, mais est-ce qu'on désire la fantaisie avant ou après la sonate (sono sempre l'umile servitore del pubblico, ma si desidera la fantasia prima o dopo la sonata) ? ” ; altre grida “ Robert le Diable ! ” furono la risposta, alle quali Liszt, rivoltosi al povero Massart, con la mano gli fece cenno di allontanarsi senza una sillaba di scuse o di rincrescimento; quindi, suonò la fantasia in modo magnifico, mandando il pubblico in delirio, poi chiamò Massart dall'angolo ed avemmo la “Kreutzer” che per una qualche ragione non sembrava più al suo giusto posto. In un'altra occasione, ad un concerto dato a beneficio dei rifugiati polacchi in casa della principessa Czartoriska, mi fece l'onore di chiedermi di suonare con lui un brano per due pianoforti e scelse la ben nota Fantasia di Thalberg sulla “Norma”. Non avevamo fatto prove, ma mi disse: “Iniziamo il tema delle variazioni ad un tempo moderato: l'effetto sarà migliore.” Ebbene, la prima parte di questo tema è accompagnato dal secondo pianoforte (la parte scelta da Liszt) da ottave eseguite da entrambe le mani, le quali ottave nella seconda parte sono riprese dal primo pianoforte. Quanto rimasi terrificato allorché, a dispetto dell'istruzione che mi aveva dato, Liszt partì con le sue ottave ad una velocità tale da non credere di poter superare la mia parte tutto intero. In qualche modo me la cavai, abbastanza male, ma, se mai avevo compreso l'espressione francese “ suer sang et eau ”, la compresi quella volta. Ebbi, tuttavia, la mia rivincita. Nella seconda variazione, in cui i pianoforti uno dopo l'altro accompagnano il tema con scale cromatiche, Liszt, invece di limitarsi alle scale, le modificò introducendo note doppie ed altre note, una prodezza di sorprendente difficoltà, che mi fece rizzare i capelli, ma che non mi sentii spinto a provare e ad imitare, dal momento che nell'insieme le semplici scale cromatiche precise e rapide sarebbero risultate di maggior effetto. Così, quando venne il mio turno, mi limitai a quelle, guadagnandomi una tornata di applausi cui anche Liszt molto generosamente si aggiunse.[16]

Della sua pronta arguzia un piccolo aneddoto, poco noto credo, può servire da esempio. A Parigi s'era costituita sotto la sua direzione una corale di amatori, molti membri della quale appartenevano alla più alta aristocrazia. Alle prove la principessa Belgioioso, una musicista esperta, accompagnava al pianoforte; tuttavia, come accompagnatrice, non era l'ideale, perché non andava a tempo: suonava la sua parte come se fosse stata un notturno o una ballata di Chopin, suo ammirato maestro. Durante una di queste prove, alla quale ero stato invitato, un giovane tenore tedesco, non proprio a suo agio col francese, si lagnò di tali libertà, borbottando, inizialmente in modo sommesso, ma alzando sempre più la voce: “ Il n'y a pas de tact, il n'y a pas de tact (non c'è tatto, non c'è tatto), ” evidentemente pensando che la parola tedesca 'Takt' avesse lo stesso significato che ha in francese. Dopo un attimo Liszt lo corresse dicendo: “ Monsieur, Madame la Princesse manque de mesure, mais vous manquez de tact (signore, la principessa non rispetta il tempo, ma voi mancate di tatto).”

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IX. Ai genitori.
(Tradotta dal tedesco)
Parigi, [martedì] 18 ottobre 1836.
Carissimi genitori,
non mi aspettavo così presto una vostra lettera, perciò la mia gioia è ancora più grande, anche se lo zio Koch mi ha fatto prendere un grosso spavento scrivendo sulla busta 'Questa lettera va inoltrata con la massima urgenza': sulle prime ho creduto che contenesse qualche infausta notizia, ma fortunatamente non era così; anzi - che Dio sia ringraziato e lodato - vi ho letto che state tutti bene (solo che non mi dite niente di Mino: nella prossima lettera non dimenticate, vi prego, di dirmi qualcosa di lui).

In primo luogo, devo parlarvi di quel che sto facendo. È presto detto: mi esercito quasi tutto il giorno e difficilmente suono qualcosa che non siano esercizi, trilli, scale, ecc.; il resto del tempo, non essendo possibile suonare senza fermarsi per una pausa, controllo e metto in ordine quello che ho fatto con Rinck, oppure, quando smette di piovere per un momento, passeggio per Parigi e visito i luoghi più importanti. Finora non ho preso lezioni, ma spero di poter cominciare fra pochi giorni, non però da Kalkbrenner. Vi racconto com'è andata l'intera faccenda. Il giorno dopo il ritorno di Kalkbrenner sono andato da lui alle 11.00.[17] Era in casa, e m'hanno accompagnato in una sala d'attesa, dove vi era già parecchia gente. Dopo avere lungamente atteso, eccolo in vestaglia. Ha scambiato qualche parola con alcune persone che erano vicine a lui, poi è venuto verso di me; mi sono fatto avanti, e stavo per spiegargli perché ero lì, ma, non appena ha sentito che volevo fare il musicista e che avevo studiato composizione con Rinck, mi ha chiesto di aspettare, finché non avesse licenziato tutti. Ne sono rimasto compiaciuto, perché così avrei potuto parlargli indisturbato. Passa ancora molto tempo, ma alla fine congeda tutti ed io posso esporre le mie richieste. Conclusa la mia esposizione, mi dice che si dispiace molto, ma che al momento gli è impossibile sodisfare i miei desideri: è stato seriamente malato ed è appena tornato dai bagni termali; è ancora così debole che il medico gli ha proibito di parlare molto, cosa inevitabile quando si dànno lezioni. In effetti, non aveva un bell'aspetto. Vi sono gli studenti del Conservatorio, cui non può sottrarsi, e la fatica è tale, da costringerlo a rinunciare a tutte le altre lezioni. A quel punto è toccato a me manifestare il mio rincrescimento. Poi aggiunge che gli sarebbe piaciuto sentirmi suonare, giusto per vedere a che livello fossi: forse avrebbe potuto raccomandarmi un insegnante. Mi conduce quindi nel salone, dove vi è un bellissimo pianoforte a coda e gli ho suonato la sua Effusio Musica: ha fatto alcune osservazioni sul tempo, e ha ripetuto più volte 'molto bene' 'eccellente', finché sono arrivato al punto dove entrambe le mani devono eseguire scale di ottave per alcune pagine. Concluso il passaggio di ottave, mi ha fermato e mi ha chiesto perché avessi eseguito le ottave di braccio e non di polso. “Siete quasi senza fiato,” disse (ed era così); ed ha aggiunto che avrebbe potuto suonare scale di ottave per un'ora senza la minima fatica: perché mai Dio ci ha dato i polsi? È sicuro che se l'Onnipotente suonasse il piano, lo farebbe di polso! Oltre ad altre osservazioni, mi ha detto che tengo le dita troppo alte, e che devo tenerle più vicine ai tasti, specialmente nei passaggi legato, per renderli più rifiniti ed ottenere nel complesso un suono più rotondo e più sonoro; quanto all'espressione, mi ha dato molti consigli, tutti ottimi, che vale la pena seguire. Poi ha suonato parte del brano che avevo appena suonato io, per farmelo capire, e poi ne ha cominciato un altro; alla fine, ha suonato per me più di mezz'ora. Potete immaginare la mia gioia: era la prima volta che sentivo un celebre musicista, e quella mezz'ora mi è stata di grandissima utilità. Nel modo di suonare di Kalkbrenner regnano una chiarezza, una limpidezza ed una pulizia, che sono sbalorditive; esegue le scale di ottave con grandissima facilità e precisione, soprattutto con la mano sinistra; inoltre, ha un modo tutto speciale di trattare il pianoforte, particolarmente nei passaggi melodici, che fa davvero impressione e che, però, non posso descrivervi; la ragione sta soltanto nel fatto che tiene le dita molto vicine ai tasti. Alla fine, mi dice di studiare di buona lena, di evitare gli errori segnalati, e che posso diventare un pianista di prim'ordine. Ha continuato dicendo che al momento sarei dovuto andare da Osborne,[*] il suo miglior allievo, che insegna con il suo metodo (Elbers ed io abbiamo suonato qualcosa di Osborne e, per quel che ricordo, ci era piaciuto molto); gli dovrei dire che mi manda Kalkbrenner, e che lo prego di darmi lezioni. Dopo aver lavorato con lui per un certo periodo, egli, Kalkbrenner, mi darebbe lezioni con sommo piacere. Concluso lo studio di ogni pezzo con Osborne, dovrei tornare da lui e suonarglielo, così ch'egli mi segnali quello che eventualmente non va. E di tanto in tanto dovrei tornare da lui. È stato gentile, non è vero? E non mancherò certo di prenderlo in parola.

Il giorno dopo[18] sono andato da Osborne (martedì scorso), ma anch'egli era fuori città: sarebbe tornato sabato. Siccome a Parigi non trovi nessuno a casa la domenica, sono andato da lui lunedì, ieri, e fortunatamente l'ho trovato a casa. Mi ha ricevuto molto amabilmente, ma quando gli ho riferito perché ero lì, mi ha detto che lo mettevo in grande imbarazzo: dà lezioni dalla mattina presto alla sera, eppure non vorrebbe rifiutarmi. Dopo aver conversato un poco di più, mi ha chiesto di suonare qualcosa: l'ho fatto ed egli ha espresso gli stessi elogi e le stesse critiche di Kalkbrenner. Poi mi ha chiesto il mio indirizzo, assicurandomi che mi avrebbe scritto entro pochi giorni se fosse riuscito a trovare un modo per darmi lezioni, con tutti i dettagli; se vi fossero state serate musicali, mi avrebbe introdotto con piacere. Perciò sto aspettando la sua lettera. Se dovesse tardare troppo, ma non credo, andrò da qualcun altro. Sono qui da oltre due settimane ed ho potuto studiare unicamente da solo; tuttavia, subito dopo il mio arrivo, Probst di Lipsia, che vive qui ed ho conosciuto tramite lo zio di Tilemann, mi ha avvertito che, se non già ho imparato a pazientare, lo imparerò qui, ed invero, sembra proprio così. Siccome né Meyerbeer né Hiller sono a Parigi, non posso recapitare loro le lettere di presentazione. Quanto all'ascoltare buona musica, non è come me l'aspettavo: in tutti i teatri dànno solo operette e balletti, compreso il Grand Opera, dove di solito si dànno le opere migliori e più recenti. Un nuovo balletto, La Fille du Danube, sarà rappresentato un centinaio di volte, tanto piace ai parigini; insomma, le possibilità di ascoltare buona musica sono più che scarse. Non scrivo tutto questo per scacciare il mio pessimo umore; al contrario, la nostalgia di voi e del mio paese natio, bello e calmo, cresce sempre più. Natale e Capodanno! Dio mio!

La sola cosa che mi rende impaziente è che Mainzer mi ha promesso di offrirmi la possibilità d'ascoltare spesso Chopin e Liszt. Spero che mantenga la parola: sarebbe per me della massima utilità.
Carl.

[p. 224]
XII. Ai genitori.
(Tradotta dal tedesco)
Parigi, [venerdì] 2 dicembre 1836.
Amati genitori,
la partenza di Selttinghaus mi ha colto di sorpresa a tal punto, che mi è proprio impossibile consegnargli le lettere da portare a Hagen. Ieri, il primo del mese, sono andato da Rumpe a prendere un po' di soldi, dopodiché ho appreso che Selttinghaus sarebbe partito oggi a mezzogiorno. Siccome ho una lezione questo pomeriggio e devo esercitarmi, ho pochissimo tempo per aggiungere qualcosa a quello che già vi ho scritto nella lettera di due giorni fa.

La mattina dopo avervi scritto, sono andato di nuovo da Meyerbeer che mi ha ricevuto subito. Come mi aspettavo, Meyerbeer è stato molto gentile ed affabile. Mi ha trattenuto più di un'ora e mezzo, chiedendomi di Rinck e dei miei studi; poi ha voluto sapere se avessi composto qualcosa; com'ero venuto a Parigi, e se avevo sentito i più eminenti pianisti, il primo dei quali era Liszt, e così via. Quando gli ho detto che non avevo né visto né sentito Liszt, mi ha invitato a contattarlo ancora entro pochi giorni, di mattina, e mi avrebbe presentato a lui: Liszt era un giovane molto piacevole, che mi avrebbe ricevuto con grande cortesia. Quanto fossi entusiasta della promessa di Meyerbeer di presentarmi a quell'originale personaggio, non riesco ad esprimerlo. Tutto questo è davvero positivo e sodisfacente.

La sera stessa[19] sono andato a cena dal barone Eichthal, dove sono stato trattato molto cordialmente e dove ho sentito Chopin. Non vi sono parole. I pochi sensi che avevo, mi hanno abbandonato; mi sarei potuto gettare nella Senna. Ogni cosa che sento ora, mi pare così insignificante che sarebbe stato meglio non sentirlo affatto. Chopin! Non è un uomo, è un angelo, un dio (che cosa posso dire di più?). Le composizioni di Chopin suonate da Chopin! È impossibile provare una gioia più intensa. Vi descriverò come suona un'altra volta. Kalkbrenner paragonato a Chopin è un bambino, e lo dico con la più profonda convinzione. Mentre suonava non potevo pensare ad altro che ad elfi, a spiriti danzanti, tanto meravigliosa è l'impressione che fanno le sue composizioni; nulla fa pensare che sia un essere umano a produrre quella musica: essa pare discendere dal cielo, così pura, limpida, spirituale. Provo un fremito ogni volta che ci penso. Se Liszt suona ancora meglio, allora che il diavolo mi porti, se non mi sparo un colpo sul posto. Per di più Chopin è una creatura affascinante, incantevole. Mi ha parlato a lungo; mi ha dato il suo indirizzo col permesso di andare a vederlo spesso, un permesso che non ha certo dato invano.

Ma ora, dilettissimi genitori, devo concludere, altrimenti Selttinghaus se ne andrà via senza la mia lettera. Addio. Selttinghaus vi dirà come sto e come vivo qui. Salutatemi tutti gli amici e i conoscenti, e siate certi dell'amore costante di vostro figlio,
Carolus.

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[1] Hallé partì da Darmstadt il 24 settembre 1836 ed il viaggio richiese non meno di otto giorni (cf. la lettera ai genitori del 23 settembre, op.cit. p. 207).
[2] La lettera in cui Hallé annuncia ai genitori l'arrivo a Parigi è del mese di ottobre (op.cit. p. 208), senza indicazione del giorno, ma molto verosimilmente è dei primi giorni del mese.
[3] Stando alla lettera ai genitori del 18 ottobre 1836, Hallé si recò da Kalkbrenner lunedì 10 ottobre.
[4] Nonostante Chopin non si sottopose al corso triennale propostogli da Kalkbrenner e questi, del pari, rinunciò a pretenderlo come allievo, molti rimasero convinti che il Polacco avesse preso lezioni da lui (v. nota seguente).
[5] Questo particolare non viene riferito nella lettera ai genitori. In ogni caso, sminuire chi si sottoponeva volontariamente al suo giudizio, doveva far parte di una collaudata procedura. L'astro Kalkbrenner cominciava a tramontare ed è naturale ch'egli volesse ribadire il suo primato in tutti i modi possibili. Ma vi è anche un altro aspetto da considerare: egli aveva investito non poco nella fabbrica di pianoforti dei Pleyel, di cui era socio; in altre parole, è inevitabile pensare che fosse interessato all'incremento delle vendite: studiare su un pianoforte piuttosto che su un altro, non era irrilevante ai fini del risultato… Questa, peraltro, era anche l'opinione di Chopin (secondo von Lenz «si doveva prendere un Pleyel [einen Pleyel hatte man nehmen müssen]», cf. Die grossen Pianoforte-Virtuosen unserer Zeit, Berlin [B. Behr's Buchhandlung] 1872, p. 39) . Che cosa esattamente accadde tra Kalkbrenner e Chopin, al momento può solo essere ipotizzato, non provato. Anche la tredicenne Clara Wieck non fu trattata diversamente. Kalkbrenner, subito dopo averla definita “un grandissimo talento”, aggiunse: «Peccato, però, come pianista in Germania non può che affondare»; al che il padre Wieck replicò: «Non affonderà, perché non la lascio andare». «Scusatemi, Signore - ribattè Kalkbrenner -, in Germania suonate tutti in un solo modo, cioè fate saltellare le dita alla maniera viennese e le inarcate come le zampe dei gamberi alla maniera di Hummel (in der Wiener Hopp- und Hummel'schen Krabbelmanier); così fanno Czerny, Ciblini, Pixis, Hiller, in una parola, tutti! Tutti quelli che vengono qui dalla Germania» (cf. B. Litzmann, Clara Schumann, I, Leipzig [Breitkopf und Härtel] 21903, p. 45). (La nostra parafrasi dell'espressione tedesca che non può essere tradotta letteralmente, cerca di rendere comprensibile il concetto a nostro avviso espresso da Kalkbrenner.) In effetti, questo modo assurdo di articolare le dita perdura ancora ai nostri giorni.
[6] Come già riferito alla n. 3, Hallé si recò da Kalkbrenner lunedì 10 ottobre e da Osborne il giorno dopo, senza però trovarlo in casa. Vi ritornò il lunedì successivo, il 17 ottobre (cf. più sotto la lettera del 18 ottobre).
[7] In realtà, Hallé incontrò Chopin mercoledì 30 novembre (cf. più sotto la lettera del 2 dicembre).
[8] Questo rilievo dovrebbe far capire quanto grande sia la differenza tra tempo e ritmo.
[9] O è un lapsus memoriae o un refuso in luogo di 31.
[10] Questo particolare è confermato da Pleyel in una lettera a Schoelcher: «Sono andato a prendere Chopin per condurlo da Mme Gangler […]; era così abbattuto che era per me una questione di coscienza farlo uscire dal suo ritiro. Alla fine, dopo una lenta e penosa lotta per salire questa dolorosa scala, arriviamo… ; Mme Gangler canta due mirabili arie di Haendel, poi il nostro piccolino, così pallido, così etico, così sofferente, si siede al piano […], prova qualche nota, fa risuonare qualche corda, qualche accordo, ed eccolo elettrizzato, e ben presto le melodie più soavi, le più toccanti scaturiscono come per incanto dal pianoforte al quale, simile a Prometeo, ha appena dato l'anima e la vita.» (cf. J.-J Eigeldinger, Chopin et Pleyel, Paris [Librairie Arthème Fayard] 2010, p. 110).
[11] Il 16 febbraio 1848.
[12] V. più sotto.
[13] Il primo festival beethoveniano ebbe luogo nell'agosto del 1845 e lo scoprimento della statua avvenne esattamente il 12.
[14] Si legga 1845.
[15] Il testo inglese di questa frase, peraltro confermato nella riedizione (cf. The Autobiography of Charles Hallé With correspondence and diaries, Edited with an introduction by Michael Kennedy, London [Barnes & Noble Books] 1973, p. 104), non ci è del tutto chiaro.
[16] Da questo episodio appare manifesta la perfidia di Liszt, il quale non si contentava d'essere il primo, ma si divertiva ad umiliare i colleghi.
[17] V. nota 6.
[*] George Alexander Osborne (1806-1893), il ben noto pianista, insegnante e compositore irlandese. [Questa nota, che è dei figli di Hallé, fa parte del testo.]
[18] Martedì 11 ottobre.
[19] Mercoledì 30 novembre.

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