Fr. Chopin Pianoforte-Werke
revidirt und mit Fingersatz versehen
(zum grössten Theil nach des Autors Notirungen)
von Carl Mikuli.

[NOTA DEL TRADUTTORE. — Karol Mikuli (1821-1897) fu allievo di Chopin tra il 1844 e il 1848. Oltre a quanto affermato da lui stesso nella Prefazione, prove esterne di un tale rapporto sembrano limitarsi al carteggio intercorso con alcuni personaggi da lui citati; parte di questo carteggio pare sia nelle mani del musicologo Hellmut Federhofer. La Prefazione, che qui presentiamo tradotta in italiano per la prima volta, offre più di ogni altra fonte informazioni preziose su Chopin pianista e insegnante.

Le ragioni per le quali Chopin accettò di seguire Mikuli non sono certo nella romanzata esecuzione dello Scherzo op. 31, subito dopo la quale egli si sarebbe deciso ad accoglierlo fra i suoi allievi. Infatti, prima di potersi fare ascoltare, bisognava riuscire ad avvicinarlo! Tellefsen, condiscepolo di Mikuli, dovette attendere parecchio prima di poter incontrare Chopin, e, si badi bene, solo dopo una raccomandazione fattagli pervenire per il tramite di George Sand, a quel tempo la padrona della vita di Chopin. Dunque, con ogni probabilità, Mikuli fu ricevuto subito, semplicemente perché era polacco, ancorché di origine armena. Chopin intuì prontamente che il ventitreenne Karol non era affatto stupido (che avesse una mente acuta lo si rileva dalla Prefazione) e ciò, unitamente al fatto che con lui poteva parlare la sua amatissima lingua, lo indusse a rendersi disponibile, al di là delle prestazioni pianistiche del giovane. È comunque da escludere che, sotto l'aspetto pianistico, fosse l'allievo prediletto. (Per ulteriori ragguagli, cf. J.-J. Eigeldinger, Chopin vu par ses élèves, nouv. éd. mise à jour, Paris [Fayard] 2006, p. 222s.)

L'edizione di Mikuli, pubblicata da Kistner a partire dal 1880, resta nel suo complesso la sola edizione di pregio che sia stata realizzata da uno solo. Purtroppo il criterio che lo guidò nella sua impresa non fu filologico; eppure nell'anno in cui scrisse la Prefazione, uscivano già i primi Revisionsberichte, a cura di E. Rudorff, quale commento critico alla prima edizione critica pubblicata da Breitkopf & Härtel. Ma torneremo a parlare di edizioni chopiniane in un altro articolo.

Purtroppo quest'edizione non è più reperibile sul mercato, a parte il primo volume (Mazurkas), edito nel 1987 dalla Dover Publications, Inc., che comprende altresì la traduzione inglese dell'intera Prefazione. Speravamo, in principio, che quel primo volume annunciasse, iniziativa lodevolissima, la ristampa di tutti i 17 volumi, ma, dopo un secondo volume miscellaneo, la Dover preferì ristampare altre edizioni del tutto inutili. Invero, è ancora sul mercato l'edizione americana di Mikuli, con un commento storico ed analitico di James Huneker, stampata dalla G. Schirmer, Inc. (dal 1895), in 15 libri. Si tratta, però, di un'edizione ricomposta, contenente errori gravi, quindi da evitare: ad es., nel Prelude n. 8 (vol. IX), le miss. 6 e 20, mentre nell'edizione Kistner sono identiche ed il testo è corretto, nell'edizione Schirmer presentano due diverse deprecabili alterazioni del tutto insensate e non imputabili a Mikuli!

Dopo una breve carriera concertistica (sarebbe interessante scovare qualche recensione dei suoi concerti), nel 1858 Mikuli si stabilì definitivamente a Leopoli (oggi Lviv), ove diresse il Conservatorio, dedicandosi anche alla composizione e all'attività didattica. Fra i suoi allievi appaiono nomi di pianisti famosi: Aleksander Michałowski, Maurycy Rosenthal e, da ultimo, Raoul Koczalski (1885-1948), il quale in virtù degli sforzi indefessi di J.-J Eigeldinger è tornato da qualche tempo alla ribalta come il solo ed unico depositario della tradizione pianistica chopiniana. Il guaio è che J.-J. Eigeldinger non è pianista (lo si capisce da come scrive) e con gli esempi fatti suonare da Pierre Goy nel cd allegato a Interpréter Chopin, actes du colloque des 25 et 26 mai 2005, Paris (Cité de la musique) 2006, dimostra di ignorare del tutto che cosa sia il tempo rubato e di non conoscere la differenza fra tempo, metro e ritmo; Eigeldinger non è certo un'eccezione, poiché la maggior parte dei pianisti si trova nelle medesime condizioni, ma nessuno di loro è il più riverito fra tutti gli chopinologi. Riservandoci di riprendere la questione altrove, il lettore può tenere per buono il giudizio che Arthur Rubinstein diede di Koczalski: «Un ex bambino prodigio che a sei anni era ricoperto di medaglie, alcune delle quali appuntate sul suo culetto (little bottom); viveva in Germania ed era diventato un pessimo pianista» (cf. A. Rubinstein, My many years, London [Johnathan Cape] 1980, p. 439). Forse ad accomunare Eigeldinger e Koczalski sono i molti riconoscimenti; per far posto, però, a tutte le onorificenze di Eigeldinger dovremmo sostituire “little” con “large”. Nondimeno, Chopin vu par ses élèves è un'opera importante, frutto di una ricerca paziente e d'una precisione quasi maniacale (ovviamente, non mancano le imperfezioni: ad es., come riferimento bibliografico viene citato “LACHMUND” che nella bibliografia non si trova; crediamo si riferisca al diario di Carl Lachmund pubblicato da Alan Walker, leggibile anche in rete).

Come abbiamo già altrove osservato (J. Lhévinne, Principi di tecnica pianistica, ed. it. a cura di Fr. L. Viero, Corsico [Edizioni del Cygno] 1999, p. xi), gli allievi raramente sono attendibili testimoni dei loro insegnanti; tuttavia, quanto riferito da Mikuli, acuto osservatore, contribuisce ad abbozzare un quadro piuttosto preciso della nuova scuola pianistica di Chopin.]



PREFAZIONE

Invitato dalla casa editrice Fr. Kistner di Lipsia a preparare un'edizione completa delle opere del mio indimenticabile insegnante, Fryderyk Chopin, di fronte alle notevoli difficoltà e alla grande responsabilità di una tale impresa, non fu facile decidermi per una risposta condivisibile. Ma, quali che fossero gli ostacoli, nulla poteva aver ragione del sentimento di devozione verso l'immortale maestro, sentimento che da tempo chiedeva con insistenza che alle arbitrarie e irriguardose alterazioni del testo, insinuatesi dopo la sua morte, fosse opposto il veto della tradizione, e che quanto l'autore aveva concepito e voluto, riacquistasse la sua genuina purezza.

Riguardo alle edizioni finora pubblicate delle opere di Chopin le cose stanno così: le vecchie edizioni originali - francese, tedesca e inglese (le successive ristampe, deturpate, non sono nemmeno da menzionare) - differiscono in più punti, talvolta a dirittura nel numero delle misure di alcune sezioni. Le edizioni originali parigine ancora disponibili hanno il pregio che durante la fase d'incisione potevano più spesso di quelle straniere, tedesche e inglesi, essere mostrate - ed in effetti lo furono - all'autore, residente a Parigi, per le correzioni; d'altro canto, le edizioni straniere, che di solito venivano incise più tardi di quelle francesi, contengono di quando in quando modifiche posteriori e migliorative apportate dallo stesso Chopin. Thomas Tellefsen, mio amico e condiscepolo, il quale ebbe la fortuna di stare accanto al maestro ininterrottamente fino al suo ultimo respiro, si trovava nella condizione migliore per offrire un'edizione assolutamente fedele, iniziata in collaborazione con l'editore Richault. Purtroppo un'ostinata malattia e la susseguente morte ne interruppero il lavoro, cosicché innumerevoli errori d'incisione passarono alla stampa senza poter essere corretti.[1]
Gli autografi dell'autore, gran parte dei quali ho avuto l'opportunità di studiare, dacché io e Tellefsen ne copiammo molti per lui,[2] brulicano di imprecisioni e di evidenti errori di distrazione, pur nella correttezza di scrittura del periodo. Vi sono note errate, valori sbagliati, errori nelle alterazioni e nelle chiavi, omissione dei rapporti fra le note di un accordo[3] e dei puntini, inesattezze a non finire nelle indicazioni di 8va e nelle legature. Basarsi su questi manoscritti originali come prova inoppugnabile, sarebbe, per quanto giustificato, più che contestabile in tali circostanze, diremmo anzi del tutto illusorio. Di qui, il revisore di una nuova edizione, che disponesse di una documentazione così precaria, fidandosi del proprio senso critico più o meno corretto, ma in ogni caso condizionato da un determinato gusto, si sentirebbe indotto troppo facilmente a scegliere tra molte lezioni quella che più gli piace o che ritiene più verisimile, sempreché non giunga a migliorare il povero Chopin di testa sua![4]

Di fronte ad una tale situazione si dovrebbe dubitare della possibilità di una corretta edizione di Chopin, se non fosse possibile fare ricorso ad altri documenti. Fortunatamente, però, questi documenti sussistono, e siccome ero nella condizione di poter disporre di tali fonti fino ad ora non considerate e peraltro irrinunciabili, ho dovuto ritenere mio sacrosanto dovere di sobbarcarmi alla fatica di una edizione purgata delle opere di Chopin.
Innanzitutto io stesso possiedo quaderni, in prevalenza dell'edizione parigina, nei quali Chopin durante le lezioni corresse di propria mano errori d'incisione, man mano che una lenta lettura li metteva in luce; in secondo luogo, ne possiedo diversi, su cui ho riportato le sue osservazioni durante le lezioni ad altri allievi, cui Chopin mi permetteva d'assistere a titolo di favore speciale; infine, ancora parecchi altri volumi con numerosissime correzioni di sua propria mano, che la defunta contessa Delfina Potocka, amica di Chopin e per anni sua allieva, mi regalò durante il suo soggiorno a Leopoli.
Oltre a questo materiale davvero prezioso ed utile per la soluzione non più vaga di parecchi dubbi, potevo ancora contare, fatto del tutto eccezionale, sulla sollecitudine di alcuni tra i migliori allievi ed amici del maestro, i quali erano pronti a sostenermi nel modo più amorevole in ogni modo, motivo per me della fondata speranza che, guidato da una tradizione ancora viva e sulla base delle correzioni provenienti dall'autore stesso, sarebbe stato raggiungibile lo scopo di ristabilire il testo autentico in un'edizione che, essendo stata redatta con la massima cura, rendesse per sempre impossibili ulteriori storpiature.

Innanzitutto nomino qui con profonda riconoscenza la principessa Marcelina Czartoryska di Cracovia e Friederike Streicher Müller di Vienna (dedicataria dell'op. 46), le quali durante le loro pluriennali lezioni, e non solo, ebbero spesso l'occasione di sentire il loro insegnante eseguire le sue opere, cosicché i loro ricordi non potevano che risultare per il revisore di grandissima importanza. Non solo attraverso la corrispondenza, ma anche nel corso di incontri durati per più settimane passavamo in rassegna tutto, nota per nota, col massimo rigore, collazionando le numerose correzioni e annotazioni di sua mano, che esse conservavano nei loro quaderni come una reliquia.
Né mi sento meno obbligato a ringraziare Camille Dubois, nata O'Meara, di Parigi; Vera Rubio,[5] nata Kologrivoff, di Firenze, anch'esse eccellenti pianiste, il cui grande talento aveva goduto delle speciali cure del maestro; infine, Ferdinand Hiller, direttore della Rheinische Musikschule di Colonia, ed Auguste Franchomme, professore al Conservatorio di Parigi, fedele e caro amico del defunto. Tutti sono stati così benevoli da fornire ragguagli decisivi per la correzione di molti luoghi delle opere, e, ancora, Franchomme in particolare per le opere da camera, alla cui stesura egli in parte collaborò.

Mi resta solo da osservare che la diteggiatura di questa edizione proviene in gran parte dallo stesso Chopin; laddove, però, non è così, essa è comunque informata ai suoi principi, il che nelle intenzioni del revisore dovrebbe facilitare l'esecuzione.[6]

Sull'enorme importanza di Chopin come compositore il giudizio è da molto tempo affatto unanime. L'entusiastica esclamazione di Schumann (cf. la recensione all'op. 2 Là ci darem la mano nella sua “Allgemeine Musikzeitung” del 1831) - «Hut ab, ihr Herrn! Ein Genie! (Giù il cappello, signori, un genio!)» - si rivelò davvero profetica a fronte di una ininterrotta serie di capolavori che la novità dell'invenzione melodica, la nobiltà dell'espressione, una raffinata, sempre accattivante armonia, nonostante la sua audacia mai pretenziosa o affettata, nonché l'iniziazione ad un nuovo utilizzo dello strumento, ma soprattutto l'incanto della loro bellezza ideale pongono a fianco delle più alte manifestazioni dell'arte musicale. I due Concerti (il primo in fa min., dedicato alla contessa Delfina Potocka, gli era molto caro), gli Studi, pietre angolari di una nuova scuola pianistica, le due imponenti Sonate, i Preludi e i Notturni, così altamente poetici e pieni di sentimento, gli Scherzi, le Ballate, gli Improvvisi, portano tutti l'impronta del genio. Se pure le Mazurche e le Polacche ispirate dal profondo ricordo dell'amata patria e dalla struggente nostalgia per essa, mai sopita fino alla morte, esercitano con il loro colore nazionale un forte ed irresistibile fascino sul cuore del popolo polacco, esse hanno tuttavia ottenuto in tutto il mondo musicale il più caloroso apprezzamento. — Il loro valore non è affatto in rapporto con la piccola cornice in cui sono racchiuse: sono in effetti quadri di genere, pennellati in modo geniale, in ogni battuta dei quali pulsa la vita polacca nella sua interezza, con accenti ora cavallereschi, ora fantastici o spensieratamente allegri. La sua patria, orgogliosa di lui, lo celebra, lo ama e lo ricorderà sempre tra i suoi figli più grandi.

Ora, se Chopin come compositore è apprezzato e venerato da tutti i veri amici dell'arte e dalle persone competenti, il pianista Chopin è rimasto quasi sconosciuto; a tal proposito si è andata diffondendo — il che è ancora peggio — un'opinione del tutto falsa, secondo cui il suo modo di suonare sarebbe stato quello di un trasognato più che di uno presente a sé stesso, fatto di pianissimi ed una-corda appena udibili, quanto mai incerto a causa di una tecnica poco sviluppata o, quanto meno, imprecisa, viziato da un continuo rubato fino alla totale mancanza di ritmo. Un tale pregiudizio, che ha potuto solo nuocere all'interpretazione delle sue opere, condizionando persino interpreti molto valenti, i quali desideravano apparire assolutamente fedeli, è peraltro facile da spiegare.
Chopin suonava di rado e solo malvolentieri in pubblico: l'“esibirsi” era qualcosa di decisamente contrario alla sua natura. Una salute da lungo tempo malferma ed una complessione nervosa che lo rendeva sovreccitabile, non sempre gli lasciavano nella sala da concerto la necessaria tranquillità per dispiegare senza ostacoli l'intera gamma dei suoi mezzi. D'altro canto, nei circoli più ristretti suonava raramente qualcosa che non fossero le sue creazioni più brevi e, di quando in quando, stralci di quelle maggiori. Ecco perché Chopin non poté guadagnarsi come pianista la generale approvazione.
Eppure Chopin possedeva una tecnica quanto mai sviluppata, con la quale padroneggiava perfettamente lo strumento. L'uguaglianza delle sue scale e dei passaggi, in ogni tipo di tocco, era insuperata, anzi a dirittura favolosa; sotto le sue mani il pianoforte non aveva nulla da invidiare alle arcate del violino né al respiro vivo degli strumenti a fiato. I suoni si amalgamavano in modo altrettanto mirabile come nel canto più melodioso.
Una vera mano da pianista, non tanto grande ma estremamente flessibile, gli consentiva d'arpeggiare gli accordi più ampi e di seguire le linee melodiche più disparate, cosa che prima di lui nessuno aveva mai osato introdurre nella tecnica pianistica. Il tutto, senza che fosse percepibile il minimo sforzo: in generale il suo modo di suonare era caratterizzato da un gradevole senso di libertà e leggerezza. Inoltre, il suono che sapeva trarre dallo strumento, era sempre possente, segnatamente nel cantabile; in questo, solo Field, tutt'al più, poteva essergli paragonato.
Un'energia virile, nobile conferiva ai passaggi che la richiedevano, un effetto travolgente – energia senza rudezze –, mentre d'altra parte con la delicatezza della sua esecuzione piena di sentimento – morbidezza senza affettazione – sapeva rapire l'ascoltatore. Eppure, con il fervore che gli era proprio in così alto grado, la sua esecuzione era sempre equilibrata, pudica, anzi nobile e talvolta persino austera.
Purtroppo, nell'orientamento dell'odierno pianismo queste sottili distinzioni, come tante altre proprie ad un'ideale concezione dell'arte, ritenute un pregiudizio che ostacola il progresso, vengono gettate nella soffitta delle “idee superate”, cosicché il mero dispiegamento di forza che trascura l'efficienza dello strumento, la bellezza del suono da ottenere, oggi dovremmo considerarlo come un gran suono, un'espressione intensa!
Quanto a tenere il tempo Chopin non era tollerante, e sorprenderà qualcuno sapere che il metronomo non lasciava mai il pianoforte. Persino nel suo tanto vituperato “tempo rubato”, la mano che accompagnava, suonava sempre rigorosamente a tempo, mentre l'altra, cantante, sia che esitando ritardasse, sia che anticipasse o accelerasse con una certa impaziente veemenza come in un appassionato discorso, lasciava che la verità dell'espressione musicale fosse libera da ogni vincolo ritmico.
Sebbene Chopin suonasse prevalentemente le proprie composizioni, nondimeno la sua notevole e precisa memoria dominava le opere più importanti e belle della letteratura pianistica; soprattutto Bach, benché sia difficile dire se lo preferisse a Mozart. Quando suonava questi due autori era inarrivabile. In uno dei suoi ultimi concerti egli letteralmente incantò (insieme con Alard e Franchomme) il sussiegoso pubblico francese nel piccolo Trio in sol maggiore di Mozart. Naturalmente amava anche Beethoven. Aveva una certa predilezione per le opere di Weber, in particolare per il Konzertstück e le sonate in mi minore e la bemolle maggiore; di Hummel, apprezzava la Fantasia, il Settetto e i concerti; di Field, il concerto in la bemolle maggiore e i Notturni, sui quali improvvisava i più seducenti abbellimenti. Della produzione virtuosistica di ogni qualità, che invero a quel tempo inquinava tutto in modo orribile, non ho mai visto nulla sul suo leggìo, né credo l'abbia visto qualcun altro; e quando gli veniva offerta l'opportunità di ascoltarla in sala da concerto, di fatto un invito forzato, vi si recava molto raramente. Di contro, era un entusiastico ed assiduo frequentatore della Société de Concerts di Habeneck e del Quartetto d'archi Alard-Franchomme.

Per alcuni lettori potrebbe essere interessante apprendere qualcosa di Chopin insegnante, anche se solo a grandi linee. Ben lontano dal reputare l'attività didattica, cui egli nella sua posizione artistica e con i suoi rapporti sociali non poteva facilmente sottrarsi, una greve incombenza, Chopin vi dedicava tutte le sue energie quotidianamente e per più ore con vero piacere. In verità, pretendeva molto dal talento e dall'impegno dell'allievo. Capitavano spesso des leçons orageuses come si chiamavano in gergo, e qualcuno lasciava il sacro altare della Cité d'Orléans, rue St. Lazare, con i begli occhi inumiditi dalle lacrime, senza per questo portare il ben che minimo rancore verso l'amatissimo maestro. Ma la severità che lo faceva difficilmente contentabile, la febbrile veemenza, con cui mirava ad elevare i suoi giovani al suo livello, il non desistere dalla ripetizione di un passo finché non fosse capito, erano la garanzia che soprattutto gli stava a cuore il progresso degli allievi. Un sacro zelo artistico lo infervorava; ogni parola che gli usciva dalle labbra era stimolante ed entusiasmante. Spesso le singole lezioni duravano più ore, finché la spossatezza non sopraffaceva maestro e allievo.
Agli inizi dell'insegnamento la prima preoccupazione di Chopin era di liberare la mano da ogni tensione e movimento convulso, spasmodico, così da dotare l'allievo della primaria condizione per poter ben suonare, cioè della souplesse (flessibilità) e, con essa, dell'indipendenza delle dita. Instancabilmente insegnava che i vari esercizi non dovevano essere meramente meccanici, bensì richiedevano l'intelligenza e tutta la volontà dello studente, per cui il ripeterli venti o quaranta volte senza concentrazione (ancor oggi il decantato segreto di troppe scuole) non servisse per niente a progredire, men che meno esercitarsi mentre contemporaneamente – è l'opinione di Kalkbrenner – ci si dedica ad una qualche lettura. Trattava i vari tipi di tocco con grande scrupolo, specialmente il suono pieno e legato.
Come ginnastica ausiliare raccomandava la curvatura verso l'interno e verso l'esterno del polso, il ripetuto attacco di polso, la distensione delle dita; tutto ciò, però, con la costante ammonizione d'evitare ogni affaticamento. Faceva eseguire le scale forte, osservando quanto più possibile il legato, e molto lentamente, per passare solo per gradi ad un tempo più veloce, con uguaglianza metronomica. Il passaggio del pollice sotto le altre dita, e viceversa, doveva essere agevolato da un corrispondente movimento della mano verso l'interno.[7] Le scale con molti tasti neri (si maggiore, fa diesis maggiore, re bemolle maggiore) venivano studiate prima delle altre; per ultima, quella di do maggiore, la più difficile. Secondo la medesima sequenza faceva studiare i Préludes et Exercices di Clementi, un'opera ch'egli apprezzava moltissimo per la sua utilità. Per Chopin l'uguaglianza delle scale (ed anche degli arpeggi) si basava non solo sul rafforzamento più uniforme possibile di tutte le dita, da ottenere con gli esercizi, appunto, sulle cinque dita, oltre che da un passaggio del pollice libero da ogni impedimento, quanto piuttosto, badando a lasciare il gomito sempre e assolutamente libero, come sospeso, su un continuo ed armonico, ma non cadenzato, fluente movimento laterale della mano, che egli cercava di dimostrare sulla tastiera con il glissando. Come brani di studio assegnava una scelta dalle Etudes di Cramer, dal Gradus ad Parnassum di Clementi e, per un perfezionamento superiore, gli studi di stile a lui molto graditi di Moscheles,[8] le Suites di Bach e alcune fughe dal Clavicembalo ben-temperato.
In certa misura egli enumerava tra gli studi i Notturni di Field ed i suoi propri, poiché l'allievo, in parte con l'aiuto delle sue spiegazioni, in parte con l'intuizione e l'imitazione (egli li suonava sempre volentieri all'allievo) potesse imparare a conoscere, amare ed ottenere un bel suono cantante e legato. Nelle doppie e negli accordi esigeva col massimo rigore la contemporaneità dell'attacco; arpeggiarli, era concesso solo là dove il compositore stesso lo indicava. Quanto ai trilli che faceva iniziare il più delle volte dalla nota superiore, teneva soprattutto all'uguaglianza più che alla velocità e dovevano essere chiusi con calma, senza precipitare.
Per il gruppetto e l'appoggiatura raccomandava come modelli i grandi cantanti italiani. Faceva suonare le ottave di polso, ma non dovevano perdere per questo di potenza. Solo agli allievi notevolmente progrediti erano assegnate le sue Études op. 10 e 25.
Sul leggìo i pezzi si avvicendavano in una serie accuratamente valutata secondo la difficoltà: concerti e sonate di Clementi, Mozart, Bach, Haendel, Scarlatti, Dussek, Field, Kummel, Ries, Beethoven, quindi Weber, Moscheles, Mendelssohn, Hiller, Schumann e le sue proprie composizioni. Era innanzitutto il fraseggio, cui Chopin rivolgeva la massima attenzione. Sull'errato fraseggio ripeteva spesso, e a ragione, che gli pareva come se qualcuno recitasse, in una lingua a lui ignota, un'orazione faticosamente impressa nella mente, in cui il declamatore non solo non rispettasse la naturale quantità delle sillabe, ma a dirittura mettesse un punto fermo nel bel mezzo di una parola. Sbagliando il fraseggio, lo pseudo-musicista darebbe a divedere che la musica non è la sua lingua, ma qualcosa di estraneo, e dovrebbe, come quel declamatore, rinunciare senz'altro a produrre con la sua declamazione un effetto qualunque sugli ascoltatori. Nell'indicare la diteggiatura, in particolare quella a lui peculiare, Chopin non si risparmiava. In quest'ambito la tecnica pianistica gli deve importanti innovazioni, che in virtù della loro utilità vennero presto adottate, non ostante che agli inizi autorità quali Kalkbrenner vi si contrapponessero recisamente. Così Chopin utilizzava senza esitazione il primo dito sui tasti neri e, tenendo invero il polso decisamente posizionato verso l'interno, lo passava persino sotto il quinto dito, se questo poteva facilitare l'esecuzione e conferirle più calma e uguaglianza. Non di rado suonava con uno stesso dito due tasti contigui (e non solo nello scivolare da un tasto nero ad uno bianco) senza che si potesse avvertire la ben che minima interruzione di suono. Ancora, passava le dita più lunghe le une sulle altre senza l'aiuto del pollice (v. Etude n. 2 op. 10) e non solo nei passaggi ove, essendo il pollice occupato a tenere premuto un tasto, ciò era inevitabile. La diteggiatura delle terze cromatiche basata su questi principi (com'egli la annota nell'Etude n. 5 op. 25) offre, ad un grado molto superiore rispetto a quello in uso prima di lui, la possibilità del più bel legato nel tempo più veloce e con la mano affatto tranquilla. Nelle sfumature graduava con grande scrupolo il crescendo e il diminuendo. Quanto alla declamazione e all'esecuzione in generale, egli offriva agli allievi inestimabili e significativi insegnamenti e consigli, ma confidava di riuscire più convincente suonando ripetutamente non solo alcuni passaggi bensì l'intero pezzo, e questo con uno scrupolo, con un entusiasmo, come ben difficilmente si aveva l'opportunità di sentire in una sala da concerto. Non era infrequente che potesse passare l'intera ora di lezione senza che l'allievo avesse suonato più di qualche battuta, mentre Chopin, interrompendolo e correggendolo seduto al suo Pleyel verticale (l'allievo sedeva sempre ad un eccellente pianoforte da concerto, ed era suo dovere esercitarsi solo su ottimi strumenti[9]), offriva alla sua ammirazione ed emulazione lo sfolgorante ideale della più alta bellezza. Si può credere senza esagerazione che solo gli allievi di Chopin conobbero il pianista nella sua insuperata grandezza.

Chopin raccomandava calorosamente di suonare con altri e di coltivare la miglior musica da camera, ma solo insieme con i musicisti più preparati. E chi non aveva quest'opportunità, era spronato a trovare una forma sostitutiva col suonare a quattro mani.
Insisteva nel raccomandare ai suoi allievi d'intraprendere il più presto possibile gli studi teorici di base, e la maggior parte doveva alla sua amorevole intercessione se il suo amico Henri Reber (poi professore al Conservatorio di Parigi), ch'egli stimava altamente sia come teorico sia come compositore, assunse la loro guida. In tutte le contingenze della vita il gran cuore del maestro era sempre disponibile verso i suoi allievi. Da amico affettuoso e paterno li stimolava ad impegnarsi sempre più; si rallegrava sinceramente di ogni loro progresso ed aveva sempre una parola incoraggiante per chi esitava e si sentiva deluso.

Leopoli, settembre 1879.

Carl Mikuli


NOTE
[1]Cf. Krz. Grabowski, L'oeuvre de Frédéric Chopin dans l'édition française, Thèse de doctorat en musicologie, Università de Paris IV - Sorbonne 1992, I p. 135s.: «Mikuli… scrive che la malattia e la morte hanno interrotto il lavoro di Tellefsen… Siccome questi esemplari sono stati pubblicati nel 1860, ossia quattordici anni prima della dipartita di Tellefsen, la considerazione di Mikuli è senza alcun fondamento. Probabilmente l'ha utilizzata per valorizzare maggiormente la sua propria edizione (Mikuli… écrit que la maladie et la mort ont interrompu le travail de Tellefsen… Comme ces exemplaires ont bien été publiés en 1860, soit quatorze ans avant la disparition de Tellefsen, la considération de Mikuli est donc sans aucun fondement. Il l'a probablement utilisé pour mettre davantage en valeur sa propre édition)». In realtà, non è inverosimile che Mikuli per riserbo preferisse parlare genericamente di malattia: in effetti Tellefsen ebbe un matrimonio infelice che lo logorò fino alla morte (cf. Natalia Strelchenko, Thomas Dyke Acland Tellefsen, 2009, p. 7, su http://www.scribd.com). D'altro canto, non si muore a 51 anni di morte naturale.
[2]Fino ad ora non sono note copie manoscritte di opere di Chopin redatte da Mikuli o Tellefsen.
[3]Trattandosi di dettagli omessi, non è chiaro che cosa intendesse Mikuli con Accordintervallen. La traduzione inglese della Dover non porta lumi. Riteniamo che Mikuli alludesse ad omissioni nella scrittura orizzontale delle singole voci di un accordo costituito da note di valore diverso.
[4]Questa è un'osservazione intelligente, riguardante la recensio, e va rimarcata.
[5]Vera Rubio fu contattata all'ultimo momento, cf. J.-J. Eigeldinger, Chopin vu per ses élèves, nouv. éd. mise à jour, Paris (Fayard) 2006, p. 231.
[6]Siccome Mikuli non differenzia le diteggiature di Chopin dalle sue, molti sono propensi a ritenere falsa l'affermazione. Il problema vero è che, siccome non conoscono la nuova scuola pianistica di Chopin, in cui la diteggiatura non è un orpello, bensì una parte fondamentale al servizio sia della tecnica, come meccanismo, sia del tocco, come sonorità, gli chopinologi non sono in grado di riconoscerla. Torneremo sull'argomento. In ogni caso, Mikuli afferma il vero e un'edizione seria dovrebbe riportarla in ogni caso, ovviamente distinta da caratteri specifici.
[7]Questo è un insegnamento della scuola pianistica italiana (è il caso di ricordare che il pianoforte è uno strumento italiano). Il primo insegnante di pianoforte di chi scrive, consigliava la stessa cosa: egli era stato allievo di Ettore Pozzoli (1873-1957), famoso didatta italiano, allievo a sua volta di Vincenzo Appiani (1850-1932), ch'era stato allievo di Antonio Angeleri (1801-1880), allievo di Francesco Pollini (1762-1846), più giovane di dieci anni di Muzio Clementi e quasi coetaneo di Mozart.
[8]Allude all'op. 70.
[9]Altro consiglio importantissimo: i cosiddetti pianoforti da studio vanno portati in discarica.

[Tutti i diritti sono riservati © Franco Luigi Viero]

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